domenica 11 novembre 2012

L'Italia si spaccherà. Grazie (anche) a Mameli

di Paolo Amighetti

L'inno di Mameli sarà inserito nei programmi scolastici. Gli studenti si avvicineranno così alle sue note e impareranno chi era questo Mameli, cosa ha fatto in vita sua e perché ci ricordiamo di lui solamente per l'attacco famoso: «Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta...». La speranza, ovviamente, è che maturino il giudizio musicale più immediato, e cioè che è tra gli inni più brutti del mondo; che capiscano, come diceva Montanelli, che Scipio in verità si chiamava Scipione ed era un pezzaccio di imperialista, una sorta di Rodolfo Graziani dell'antichità; che strillare «stringiamoci a corte» non ha alcun senso, e che semmai quel pezzo suonerebbe «stringiamci a coorte», con esplicito collegamento alle divisioni romane, che laddove facevano il deserto lo chiamavano pace; e infine che gli insegnanti si spingano fino alla quarta strofa, dove si trovano riferimenti, udite udite, alla Lega Lombarda («dall'Alpe a Sicilia, ovunque è Legnano»), o all'ultima prima del ritornello, carica di invettive truculente agli austriaci che bevono il sangue italiano come i russi quello dei polacchi. Apologia di crimini di guerra, immagini degne di un film horror, mistificazioni storiche: tutto questo verrà condensato per decreto in lezioni apposite, così da far sbocciare nel cuore dei fanciulli l'amore per la patria. Roba da fascismo, come titola L'Indipendenza.



Il brano in sé ha mille difetti, ma il problema è un altro: l'autorità, ancora una volta, si impone sulla mente dei più giovani colpendoli con l'arma più forte, che non è la cinematografia, come diceva il duce, ma l'istruzione pubblica. Niente di nuovo, d'accordo, ma certi decreti sembrano fotocopie delle ordinanze del MinCulPop: non è mai piacevole sentirseli piombare in testa. Ad ogni modo, non lasciamoci prendere dallo sconforto: esistono almeno tre buone ragioni per non disperare.
Uno: gli italiani sono sempre rimasti gli stessi: un non-popolo di individualisti sordi alle ingiunzioni del potere, che flirtano magari con l'autorità, ma solo per ricercare un guadagno personale a spese dei concittadini. Ai romanticismi sono allergici, o quasi. Un esempio? Quelli che Miglio chiamava parassiti sono patrioti perché l'Italia garantisce loro il sussidio, non perché «dell'elmo di Scipio s'è cinta la testa».
Due: la scuola ha il potere mirabile di tradurre in noia le più alte manifestazioni della cultura occidentale. Se sui banchi gente come Catullo, Cicerone e Seneca risulta insopportabile alla gran parte degli studenti, c'è da sperare che un Mameli qualsiasi non faccia una fine migliore.
Tre: l'orgia di «disfattismo» nazionale che contraddistinse la prima repubblica fu una risposta al ventennio littorio, quello degli immancabili destini e dell'Impero che tornava sui colli fatali. A metà anni Novanta, il trionfo della Lega e il vasto consenso alla secessione hanno trasformato la classe politica in una divisione di Balilla. Anche l'opinione pubblica antileghista mutò in quella stessa direzione. Perfino i comunisti, nemici per mezzo secolo del tricolore, cominciarono a sventolarlo con entusiasmo. Le prossime generazioni saranno secessioniste per lo stesso motivo? Incrociamo le dita.

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