giovedì 28 febbraio 2013

Se Grillo è il nuovo, ridateci il vecchio!

di Paolo Amighetti

Ha vinto Grillo. Ora che il suo movimento è l'ago della bilancia della politica italiana, gli auguriamo che sappia trasformare in fatti le promesse: che, dopo aver messo al tappeto la Casta, la seppellisca e buonanotte suonatori. Questo è pressappoco quello che scriverei se il recentissimo, strabiliante successo dei grillini lasciasse sperare in una ristrutturazione (e non in una riverniciatura) del sistema politico. Purtroppo, la sensazione prevalente è di essere passati dalla padella alla brace. Straordinario. Possibile che ci tocchi rimpiangere i teatranti sul viale del tramonto? Berlusconi, Bersani, Fini, Casini: tutti sono stati più o meno ridimensionati da queste elezioni. Con loro muoiono gli ultimi vent'anni di storia italiana. La loro, ormai, è la vecchia politica. La nuova è quella che si fa nelle piazze e sul blog di Beppe Grillo, dove si dà sfogo agli umori più neri dell'invidia sociale, del delirio ambientalista, dello spasimo tipico dei «rottamatori». Grillo ha fatto man bassa dei voti di tutti: ha svuotato l'Idv, il partitino di Ingroia, ha azzoppato il Pd e indebolito Lega e Pdl. Nei suoi ranghi si distinguono elettori di ogni idea e condizione: giovani dell'estrema sinistra, nostalgici del Duce, casalinghe stufe del centrodestra e del centrosinistra, pirati del web, giornalisti antifascisti, intellettuali di regime. Le idee vaghe hanno sempre un futuro, diceva un giornalista.

mercoledì 27 febbraio 2013

Il vero Lincoln e le bugie di Spielberg (parte seconda)

di Damiano Mondini


The real Lincoln: l’ Unione über alles
Nel marzo del 1850, a pochi giorni dalla propria morte, il grande statista e pensatore del South Carolina John C. Calhoun scriveva quanto segue ad un amico:
L’Unione è destinata ad essere dissolta, i segnali sono evidenti. […] [Non è più possibile] evitare, o concretamente posporre, la catastrofe. Plausibilmente mi aspetto che ciò accada entro dodici anni o tre mandati presidenziali. […] Il modo in cui succederà non è così chiaro, […] ma con ogni probabilità la detonazione avverrà nel corso di una elezione presidenziale.

martedì 26 febbraio 2013

Il vero Lincoln e le bugie di Spielberg (parte prima)

di Damiano Mondini

Il 24 gennaio è uscito nelle sale italiane il film Lincoln, diretto da Steven Spielberg con Daniel Day-Lewis nel ruolo di protagonista. Come largamente previsto dalla critica, la pellicola ha sbancato il botteghino. Un successo degno del regista, un film in grado di commuovere e di colpire nel profondo. Si tratta di una ricostruzione storica – ancorché hollywoodiana - , che dovrebbe avere fra i suoi primi obiettivi quello di narrare in modo relativamente esaustivo fatti realmente accaduti. E quest’obiettivo è stato completamente mancato: la ricostruzione è ai limiti della “fantastoria”, la partigianeria è stomachevole e indigesta, la prospettiva yankee assurge a voce dominante nel peggior stupro di una realtà drammatica come quella della Guerra civile americana. In questo modo una figura complessa, inquietante  e a tratti mefistofelica come quella del sedicesimo Presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln viene dipinta con toni agiografici e santificatori, coi soliti banali orpelli dell’emancipatore di schiavi, del salvatore della pace e della libertà. Per chi nella pace e nella libertà crede davvero – e proprio per questo non sopporta che la memoria del Vecchio Sud sia infangata dell’ideologia dei vincitori -  è quanto mai cogente rispolverare alcune semplici verità fattuali relative a quel periodo miliare della storia americana che fu la Civil War, disincrostandola dai luoghi comuni, dalle interpretazioni faziose e soprattutto dalle mistificazioni sesquipedali che ne accompagnano le narrazioni più in voga – non ultimo questo ritratto demenziale fornito da Spielberg, anche se invero molti pregiudizi sono divenuti patrimonio comune.

lunedì 25 febbraio 2013

Cosa ci insegna Oscar Giannino


di Tommaso Cabrini

Non penso ci sia bisogno di una introduzione, anche per merito di una iperattiva stampa “nemica”, i  suoi titoli accademici sono sulla bocca di tutti: Dott. Oscar e Mr Giannino.
Ma un evento così forte ed inaspettato cosa ci trasmette? Innanzitutto le mie emozioni iniziali sono state di stupore ed un po’ di rabbia. Ma raffreddandosi un po’ la situazione ha prevalso la mente e le emozioni sono cambiate. E’ sopravanzata la compassione: Giannino proviene da una famiglia piuttosto povera, ma nonostante questo ha l’occasione di frequentare l’università, in una sorta di riscatto sociale. Poi intervengono i casi della vita e il nostro Oscar, a quanto pare, non giunge alla laurea. Tuttavia avverte chiaramente dentro di sé un senso di inferiorità nei confronti di chi il “pezzo di carta” ce l’ha. Probabilmente più volte ha sentito sbeffeggiare le sue opinioni (magari migliori) solo perché contrastate da qualcuno che “è laureato” o “ ha fatto il master”. E così, il titolo, decide di inventarselo. A guardare in fondo alla questione non c’è nulla di estremamente grave, non ha neanche mai esercitato professioni che richiedessero il titolo di studio. Chi, poi, non ha mai detto qualche balla (magari più piccola ma comunque altrettanto falsa) per dare forza alle opinioni espresse? Colui che non ha mai peccato scagli la pietra, vien da dire.
Ma questa triste vicenda umana, molto umana, in fondo cosa ci insegna?

domenica 24 febbraio 2013

Ansie (?) elettorali

di Paolo Amighetti

«Rinnovare i due rami del Parlamento» non è mai stato così difficile. Troppe liste troppo simili, troppe sigle e nomi fastidiosi (come si fa a dire: «ho votato Ingroia?» Il suono, Ingroia, è sgradevolissimo). Schede di dimensioni strabilianti, procedure intricate tra voti disgiunti, Politiche, Camera e Senato, Regionali. Un macello. Nemmeno questo, però, mortifica l'entusiasmo dell'elettore. Il buon cittadino va alle urne anche sotto la neve e la pioggia, perché è risaputo: votare è «un diritto e un dovere civico». Noi di The Road to Liberty non siamo buoni cittadini, non pensiamo affatto che votare sia un «dovere», ma questo non significa che nel nostro gruppo ci sia la dittatura: vige anzi la piena libertà di coscienza e di incoscienza. Pertanto, qualcuno di noi voterà, qualcuno l'ha già fatto, qualcuno eviterà. Come blog ci siamo schierati: stiamo dalla parte di Marco Bassani e quindi, indirettamente, di FARE per Fermare il Declino. Ma in cabina elettorale ognun per sé e Dio (che ci vede!) per tutti. In queste ore in cui la febbre elettorale si coniuga alla smania calcistica, attendiamo il responso delle urne senza troppo entusiasmo. Andrà male, perché «bene» non può andare. Speriamo almeno di avere qualcosa di cui rallegrarci mercoledì. Incrociamo le dita...

sabato 23 febbraio 2013

Chi votare? Chi si impegna contro tasse e spesa!

di Nicolò Petrali*




Riceviamo e pubblichiamo con piacere questo contributo di un caro amico nostro e della Libertà, Nicolò Petrali, che riflette sul voto di domani, illustrando un'interessante iniziativa del movimento anti-tasse Tea Party Italia, che da tempo questo blog sostiene con forza e convinzione.

Ci siamo. L’appuntamento elettorale è finalmente (o purtroppo!) arrivato e gli ultimi indecisi stanno navigando in rete e chiedendo consigli ad amici e parenti per scegliere su quale simbolo mettere la croce domani. 

L’astensionismo sarà quasi certamente il primo partito, ma per quelli che, nonostante tutto, si recheranno alle urne, è giusto fornire fino all’ultimo degli spunti sperando che il loro voto diventi davvero consapevole.

mercoledì 20 febbraio 2013

La stampa di destra affonda Giannino

di Paolo Amighetti

L'abbiamo detto e ripetuto: sui canali Mediaset e sui giornali di Berlusconi (o filoberlusconiani) Giannino non ha spazio. Troppo pericoloso, troppo popolare, troppo fastidioso per un Pdl ancora in rimonta sul Pd a pochi giorni dalle elezioni. Ieri, la sorpresa: Libero e Il Giornale hanno dedicato la prima pagina al leader di FARE. No, Feltri e Belpietro non voteranno la «lista con la freccia», e no, Berlusconi non si è disfatto del suo foglio. Tenta di disfarsi di Giannino, gettandolo alle luci della ribalta sperando che ne venga accecato. Il pericolo esiste, perché di Oscar si parla solo come del bugiardo che millanta master mai conseguiti. Su Libero e Il Giornale campeggiavano ieri titoli frizzanti, a caratteri cubitali: «Il declino di Giannino», «L'Oscar delle balle». Nessun altro quotidiano ha dato tanta importanza all'addio di Zingales a FARE, né alla stupidaggine (perché di questo si tratta) commessa da Giannino nel vantarsi di un titolo accademico che non ha. Non è certo un caso che a trasformare una scemenza in uno spettacolo nazionale siano i giornali su cui si regge il Cavaliere, che, stando alle sue ultime dichiarazioni, ha pure «superato la sinistra». Il gagliardo campione del centrodestra, ormai in pole position nella corsa a Palazzo Chigi, gongola. Perché non segnalare e sottolineare lo scivolone del leader di FARE, relegando in secondo piano tutto il resto? Perché non evidenziare l'errore di Giannino fino a trasformarlo in una prova di piena disonestà, di completa inaffidabilità?

martedì 19 febbraio 2013

Giullari e menestrelli alla corte di Giannino

di Damiano Mondini

La notizia ha fatto presto il giro della rete, e alle 18.30 se ne parlava perfino a Radio 24, da Cruciani: Luigi Zingales, professore di Finanza alla University of Chicago Booth e promotore del movimento “FARE per Fermare il declino”, ha rassegnato le sue dimissioni dalla stessa formazione politica che aveva contribuito a creare nel luglio del 2012. La motivazione è inequivocabile e shoccante: il dissenso sarebbe nato dalla falsificazione, operata consapevolmente dal leader del movimento Oscar Giannino, del proprio curriculum vitae; Giannino avrebbe fatto figurare un master presso la Chicago Booth che in realtà non ha mai conseguito. Non solo avrebbe sparso sulla Rete tale credenziale falsa, ma l’avrebbe finanche ripetuta in un video-intervista rilasciato a Repubblica.it. Millantare un titolo di studio, soprattutto quando ci si erge a paladini della trasparenza e della correttezza, è un’azione grave; è ancor più grave rifiutarsi di rettificare pubblicamente, e perciò – sostiene Zingales – una presa di distanza da Giannino e dal suo movimento si rende “a malincuore” necessaria.

lunedì 18 febbraio 2013

Intervista a Lodovico Pizzati

di Paolo Amighetti

Dopo quanto accaduto a Venezia urge fare il punto della situazione. Chi meglio del dottor Lodovico Pizzati, segretario di Indipendenza Veneta, può riassumere il significato della grande manifestazione di ieri, che ha visto migliaia di veneti sfilare per le calli fin davanti al palazzo del Consiglio regionale per presentare una richiesta di referendum entro l'ottobre 2013? Speriamo che quest'intervista confermi le impressioni di chi c'era e soddisfi la curiosità di chi non è potuto venire.

Dottor Pizzati, ieri Indipendenza Veneta ha radunato in piazza San Marco una vera folla di veneti decisi a sottoporre al Consiglio regionale una proposta di legge: questa prevede un referendum consultivo sul tema dell'indipendenza, da tenersi il 6 ottobre. Lei, che di Indipendenza Veneta è il segretario, che idea si è fatto sull'esito dell'iniziativa? Com'è andata ieri a Venezia?

È stata una splendida giornata, piena di entusiasmo e di felicità. Abbiamo inondato Venezia non per protestare qualcosa, ma per fare assieme un decisivo passo avanti verso la rinascita della Repubblica Veneta. È questione di mesi.

Cominciamo a
«dare i numeri»: in quanti eravate, ieri, a Venezia? Certo, il successo di una manifestazione non dipende solo dal numero dei partecipanti. Pure, deve molto alla loro affluenza. L'Ansa stima che ieri ci fosse un migliaio di veneti, altri riportano cifre molto alte: addirittura più di diecimila.

La confusione sui numeri risulta dalla conta fatta in campo della Salute, di fronte al Consiglio regionale, dove raccoglievamo le sottoscrizioni alla legge referendaria che abbiamo presentato. Molti firmatari tornavano a casa quando ancora arrivava gente a fiumi da tutte le calli. Abbiamo postato un video dell'intero corteo dove tutti possono contare i numeri effettivi. Eravamo attorno ai diecimila partecipanti.


sabato 16 febbraio 2013

Giannino, tormento del Cavaliere

di Paolo Amighetti
Chi è, oggi, il nemico numero uno di Silvio Berlusconi, l'uomo che più irrita il Cavaliere? Non è Bersani. L'affabile emiliano recita il suo copione di leader del centrosinistra, dal quale non ci si aspettano baci né carezze. Sarebbe strano il contrario. Non è nemmeno Monti. Berlusconi ha ribadito un giorno sì e l'altro pure che il centrodestra ha sostenuto il professore ma ha preso un grosso abbaglio, al quale rimedierà in caso di vittoria il 24-25 febbraio: la questione, tutto sommato, è morta lì. Non è Vendola, né Ingroia, né Grillo. I primi due sono pesci piccoli, il comico genovese è più probabile tolga voti alla sinistra che agli aficionados di Silvio. Chi manda in bestia l'ottimista ex-premier è Oscar Giannino, capo di un partito modesto con modeste aspirazioni e poco seguito. Perché mai? Per vari motivi. Tanto per cominciare, gli uomini si somigliano poco. Berlusconi è irriverente, colorito e volgare come Giannino è ironico, sottile e (di solito) cortese. L'uno vende prodotti scadenti che piacciono al grande pubblico, l'altro parla quasi «che non si capisce» a furia di lanciarsi in analisi squisitamente economiche. L'uno cerca di sembrare giovane e giovanile, l'altro sembra sbucato da un salotto di fine Ottocento. Due figure incompatibili, condannate all'antipatia da quando Giannino si è deciso a «scendere in campo» per sparare a zero sugli ultimi diciotto anni di delusioni berlusconiane.

venerdì 15 febbraio 2013

Veneto: referendum in vista?

di Paolo Amighetti

Sabato 16 febbraio Indipendenza Veneta presenterà una proposta di legge regionale per l'indizione di un referendum per l'autodeterminazione. Niente di definitivo, per ora: il referendum, da tenersi forse il 6 ottobre, sarebbe di tipo consultivo. Aiuterebbe a capire quale sia a questo proposito l'orientamento dei veneti, nulla di più: se desiderano cioè restare entro i confini dello Stato italiano, o se preferiscono arrangiarsi e costituire una nuova Repubblica veneta indipendente. Rispetto a quanto deliberato lo scorso 28 novembre, quando venne accolta la risoluzione 44 che ribadisce «il diritto del popolo veneto alla compiuta attuazione della propria autodeterminazione», il gesto di sabato rappresenta un passo avanti. Del tutto in linea con lo spirito della risoluzione, beninteso. L'opinione diffusa è che sia giusto e legittimo lasciare la parola ai cittadini: anche i partiti contrari all'indipendenza, lo scorso 12 febbraio, hanno sottolineato «l'importanza di interpellare i cittadini su questi temi, nel rispetto di una democrazia diretta»*. Questi sono segnali positivi: più che l'avvicinarsi dell'indipendenza del Veneto, infatti, conta il sempre più diffuso riconoscimento del diritto dei cittadini a decidere del proprio futuro. Il dret a decidir che i catalani stanno conquistando in questi mesi, insomma, sta assumendo un peso determinante nelle rivendicazioni dei cittadini veneti. Arrivare ad un referendum, anche solo consultivo, sarebbe una vittoria del principio di autodeterminazione, prima che della maggioranza dei veneti favorevoli all'indipendenza. E come reagiranno le istituzioni quando gli umori separatisti dei veneti prenderanno corpo e diventeranno numeri percentuali? 

*http://indipendenzaveneta.net/cari-consiglieri-regionali/

martedì 12 febbraio 2013

Il consenso smuove le montagne. Sottoscrivete la dichiarazione di libertà dei veneti

di Redazione





Il 28 novembre scorso è stata approvata dal Consiglio regionale veneto la risoluzione 44, che afferma

«il diritto del popolo veneto alla compiuta attuazione della propria autodeterminazione»: poche ore fa è stato presentato il «manifesto per la libertà del Veneto», già sottoscritto da studiosi illustri quali Marco Bassani, Hans-Hermann Hoppe, Pascal Salin, Donald W. Livingston, Ralph Raico, Xavier Sala-i-Martin e Carlo Lottieri. La risoluzione 44 non può finire dall'oggi al domani nel dimenticatoio. La questione veneta è ormai aperta: è necessario che tutti ne prendano atto, ne vengano a conoscenza. I media italiani non danno alcun risalto a ciò che accade in Veneto: ma c'era d'aspettarselo. Bisogna però che alle parole dette e stampate seguano i fatti, perché le istituzioni riconoscano e rispettino il diritto inalienabile del popolo veneto a decidere del proprio futuro. Il manifesto per la libertà del Veneto e la risoluzione sono in rete sul sito http://www.risoluzione44.org/*, che riporta in quattro lingue il testo della dichiarazione e offre la possibilità a chiunque di sottoscriverla. Vi invitiamo ad imitare la sessantina di persone che già hanno firmato: solo dal consenso può nascere un Veneto indipendente. Non siete veneti? Sosteneteli nel loro cammino verso l'indipendenza. Libero il Veneto, liberi tutti.

*In collaborazione con Diritto di Voto

lunedì 11 febbraio 2013

Giovannino Guareschi: un uomo libero

di Paolo Amighetti
Tutti hanno visto almeno una volta i film di don Camillo e Peppone. Pochi, oggi, leggono i libri che li hanno ispirati. Fernandel, interprete del grosso prete della Bassa, è più famoso di Guareschi, che di quel prete è padre e alter ego. Peccato, perché dimenticare Guareschi significa non soltanto ignorare un grande scrittore, che pur avendo «un vocabolario di cinquecento parole», come ricordava l'amico Montanelli, ha conquistato i lettori di tutto il mondo: significa abbandonare un uomo vero, geloso della sua indipendenza e fedele a ciò in cui credeva. Storia bizzarra, quella di Guareschi: finito in un lager durante la guerra, tornò in Italia per ricevere dai compagni la patente di fascista; dalle colonne del suo settimanale Candido diede un grosso contributo alla causa della Democrazia cristiana, incidendo sui risultati del 18 aprile 1948, per poi infangarsi nell'affare delle compromettenti lettere vaticane, secondo lui firmate De Gasperi, e finire in galera. Ci finì perché era troppo orgoglioso, troppo cocciuto: non chiese la grazia, che pure era a portata di mano, e pagò per intero lo scotto del suo errore. Quando morì, nel 1968, il suo mondo si stava spegnendo con lui. Cedeva sotto il peso della contestazione: chissà come gli sarebbero rimaste sullo stomaco le «okkupazioni» e i movimenti studenteschi, lui che già ad inizio anni Sessanta scriveva che «l'attuale generazione d'italiani è quella dei dritti, degli obiettori di coscienza, degli antinazionalisti, dei negristi [...] Pertanto, più che una generazione, è una degenerazione. [...] Questa è l'Italia che cerca di combinare un orrendo pastrocchio di diavolo e d'Acquasanta, mentre una folta schiera di giovani preti di sinistra (che non assomigliano certo a don Camillo) si preparano a benedire, nel nome di Cristo, le rosse bandiere dell'Anticristo.» Il «reazionario» Guareschi inventò don Camillo, ma gli affiancò un sindaco comunista che più comunista non si può, Peppone: l'uno e l'altro non sono che le due facce del sanguigno scrittore, capace di dare vita (e rendere verosimili!) un prete che discute animatamente con Cristo e un caposezione comunista che davanti al crocifisso s'inchina togliendosi il cappello.

venerdì 8 febbraio 2013

[SOSTIENI BASSANI] Per una Lombardia elvetica

di Paolo Amighetti
A dividere il Canton Ticino dalla Lombardia c'è soltanto un confine. Di qua e di là, si parla la stessa lingua; di qua e di là, il paesaggio è lo stesso: siamo ai piedi o alle ginocchia delle Alpi. I legami tra le due terre sono tanto forti che la Svizzera italofona si chiama anche «Lombardia svizzera». Ma se il Canton Ticino è la propaggine meridionale della Confederazione svizzera, la Lombardia è una «Regione a statuto ordinario» della Repubblica italiana. Le divergenze nascono da qui: mentre i cittadini ticinesi godono di amplissima potestà decisionale su tutto ciò che riguarda la loro comunità (dalla pressione fiscale, all'immigrazione, alla stessa loro appartenenza al Cantone), i cittadini lombardi sono privati di un'altissima percentuale della ricchezza che producono: sono cioè impotenti dinanzi alle scelte del governo, che da tempo promuove un drenaggio di risorse dalle regioni virtuose a quelle viziose. Negli ultimi dieci anni, i lombardi hanno versato allo Stato italiano 450 miliardi di euro: una media di quaranta miliardi all'anno. Queste cifre astronomiche attestano che la Lombardia è di fatto una colonia tributaria dello Stato italiano. Perché il governo destini un euro di spesa pubblica in Lombardia, infatti, bisogna che il contribuente bresciano, bergamasco o milanese paghi circa due euro e quarantacinque. In Abruzzo, ad un euro di spesa pubblica corrispondono circa 53 centesimi; in Basilicata 28 centesimi, in Calabria 27. In sostanza, la Lombardia paga praticamente per tutti. Come afferma il professor Marco Bassani, candidato nelle liste di FARE per Fermare il Declino al Consiglio regionale lombardo, «al sud essere centralisti e statalisti è perfettamente logico e razionale»; viceversa, dovrebbe essere il contrario al nord e soprattutto in Lombardia, dove si paga di più e si riceve di meno. Ma alle regioni più produttive d'Italia manca lo spirito che anima la Confederazione svizzera: manca cioè la consapevolezza che all'arroganza dei governi si può resistere ponendoli in concorrenza tra loro. Questo è il sale dell'autentico federalismo, che Marco Bassani descrive come «la distruzione dei monopoli statali», un modo di «fare entrare l'economia di mercato e la concorrenza anche tra i governi».

giovedì 7 febbraio 2013

Nessuno tocchi Giannino!

di Damiano Mondini

Accettare e confessare i propri limiti non è affatto un difetto, anzi: è un segno di modestia e di prezioso senso d’autocritica. Allo stesso modo – e con la medesima umiltà – da questo blog non sono mai mancate critiche a quelli che venivano percepiti, a ragione o a torto, difetti formali o sostanziali del partito di Oscar Giannino, “FARE per Fermare il Declino”. Nondimeno, vi è un attacco a questa formazione politica che proprio non riusciamo a digerire, ed è quello rivolto dai pasdaran irriducibili del Popolo della Libertà e del Cavalier Silvio Berlusconi. Mi riferisco in modo precipuo all’odierno editoriale del direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti: verrebbe da dire, chi è senza peccato scagli la prima pietra. Un uomo peraltro difeso dallo stesso Giannino quando, pochi mesi orsono, si trovò faccia a faccia con i Pubblici Ministeri e con le porte del carcere. Ma più che l’ingratitudine – che in un berlusconiano forse non dovrebbe nemmeno stupirci -, ci colpiscono la disonestà intellettuale ed il tenore offensivo di questo pezzo;  di fronte a quest’ultimo sentiamo – o almeno sento io personalmente – di dover difendere a spada tratta il fondatore dell’unica formazione davvero liberale che troveremo sulle schede elettorali. E parlo di FARE, non del PDL o di Fratelli d’Italia.

martedì 5 febbraio 2013

Intervista esclusiva a Giacomo Zucco

di Luigi Angotzi

Giacomo Zucco, ventinovenne portavoce del Tea Party Italia, ha messo alle corde Mario Monti durante la trasmissione Leader: il video già spopola sul web. L'ex premier è sfuggito goffamente alla sua domanda: «perché ha alzato tasse e spesa pubblica quando sapeva di dover fare l'opposto?». All'indomani di questo «Ko tecnico» in diretta televisiva, la redazione ha fatto qualche domanda a Giacomo.

Giacomo, sei soddisfatto di quanto ha detto il Prof. Monti? Secondo te gli ascoltatori avrebbero gradito una risposta più corposa?

Non credo che una risposta più "corposa" sarebbe stata molto più soddisfacente: ho il sospetto che Monti non abbia risposto nel merito perché, semplicemente, non poteva rispondere nel merito. Però sinceramente mi sarei aspettato almeno un elaborato tentativo politichese di giustificare il suo operato, e non quella risposta da bambino con l'orgoglio ferito. Il professore ha voluto provare a tutti i costi una cosa per lui molto nuova: l'irriverenza, che finora gli è sempre stata risparmiata tanto dai suoi studenti in Bocconi quanto dai giornalisti a Palazzo Chigi. Ma quando ha avuto quello che chiedeva, ha evidentemente scoperto di non gradirlo particolarmente.

lunedì 4 febbraio 2013

[SOSTIENI BASSANI] Cosa Jefferson può insegnare all'Italia

di Damiano Mondini

Si dice spesso che i grandi maestri del passato continuano a dare lezioni al presente, oltre  che ad insegnarci come immaginare il futuro. Sovente si tratta di esercizi retorici da ginnasio o da liceo, come quando si vagheggia dell’attualità dell’utopia platonica o della preveggenza di Karl Marx nei riguardi dell’inevitabile crollo del capitalismo. Ciò nondimeno, per alcuni pensatori questa massima risulta particolarmente calzante: Thomas Jefferson (1743-1826) è uno di questi; si potrebbe anzi azzardare che, per comprendere il panorama politico contemporaneo, e nella fattispecie quello italiano,  il virginiano sia un convitato imprescindibile. E’ questa la tesi di Luigi Marco Bassani, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Milano e candidato consigliere regionale in Lombardia nelle liste di FARE, studioso che a questa figura originale ha dedicato un’ampia bibliografia: in particolare, sia consentito citare Contro lo Stato nazionale. Federalismo e democrazia in Thomas Jefferson (Fenicottero, 1995), Dalla Rivoluzione alla guerra civile. Federalismo e Stato moderno in America 1776-1865 (Rubbettino, 2009) e Liberty, State and Union. The Political Theory of Thomas Jefferson (Mercer University Press, 2012).

sabato 2 febbraio 2013

Giacomo Zucco fulmina Mario Monti

di Paolo Amighetti
 

 
Chissà cosa si aspettava Mario Monti ieri sera. Di non essere accolto con calore, forse. Di essere messo «alla berlina», come si suol dire, da qualche domanda scomoda. Timori infondati, dopotutto. Già verso la fine della trasmissione il professore poteva gongolare: «"Leader" ha la fama di essere una trasmissione difficile per chi viene invitato. Io questa difficoltà non l'ho riscontrata, o forse non l'ho capita; in tal caso me ne scuso». Ma per colmo di sfortuna, ieri alla corte di Lucia Annunziata c'era anche Giacomo Zucco. Non è stato maleducato, non ha alzato la voce, non ha offeso. Ha apostrofato il premier chiamandolo «Tremonti diviso tre», ma come ha detto la stessa Annunziata, «l'irriverenza a "Leader" è gradita». Il portavoce del Tea Party Italia ha semplicemente posto una domanda, anzi la domanda che tutti noi avremmo voluto fare al tecnico dei tecnici: perché Monti ha scelto di alzare le tasse e dilatare la spesa pubblica quando tutti e tutto (dall'Europa, al FMI, al buonsenso) indicavano che era necessario, viceversa, tagliare le tasse e diminuire la spesa? Come mai il governo ha fatto l'esatto contrario di ciò che sapeva di dover fare? Ha elencato Zucco: «Le tasse sono aumentate; ha introdotto nuovi tipi di tasse; le imposte non hanno ridotto il debito; ha aumentato la spesa corrente; ha programmato un aumento di tasse fino a 22 miliardi di euro; parlava di liberalizzare il lavoro, e la Fornero ha fatto l'opposto». Presa la parola, Monti ha dato spettacolo. Si è lanciato in dichiarazioni acrobatiche, una parola vuota dietro l'altra: insomma, non ha detto nulla. Una scena muta, impietosa. Da scolaretto, altro che professore. «Dovrò valutare più attentamente non tanto le critiche tecniche, ma le riserve di ordine morale e comportamentale che mi sono state rivolte. Farò una autoflagellante riflessione». Cosa c'entri tutto ciò con la domanda di Zucco, è mistero. «Chiedere è lecito, rispondere è cortesia» dice un proverbio. Monti ha parlato cortesemente, senza dubbio. Ma non ha risposto.

venerdì 1 febbraio 2013

The Liberty Bell: che vinca il peggiore! O no?

di Paolo Amighetti

Questi sono i giorni «della merla». I più freddi dell'anno, secondo la tradizione e il termometro: raro caso in cui la scienza più moderna e il vecchio bagaglio delle credenze popolari vanno a braccetto. Purtroppo, non c'è che la politica a scaldare queste mattine invernali: le elezioni sono vicinissime, manca ormai pochissimo al 24-25 febbraio. Una due giorni rovente alla quale ci avviciniamo con un sacco di indifferenza ma anche, udite udite, con un pizzico di speranza. Non ci sono in ballo soltanto le Politiche, stavolta: in Lombardia si vota pure per le Regionali. Dunque, la posta è un po' più alta del solito. Digerito l'amaro boccone della bocciatura di Forza Evasori, speriamo che questa campagna elettorale scialba e monotona (l'ultima veramente avvincente, dopotutto, fu nel 1948: «Nel segreto della cabina elettorale, Dio ti vede, e Stalin no!») si avvii alla conclusione, e che vinca il peggiore. Ce ne faremo una ragione, come sempre. Ma stavolta forse, ed ecco la ragione della scintilla d'entusiasmo, dopotutto c'è un «migliore», uno per la cui vittoria si possono incrociare le dita: si chiama Marco Bassani, è una delle punte di diamante del libertarismo italiano e si candida per le regionali in Lombardia nelle liste del movimento di Giannino, Fare per Fermare il Declino. Vi diremo perché abbiamo intenzione di sostenerlo, e vi inviteremo a farlo a vostra volta: in alternativa vi proporremo una sana astensione, per chi non volesse diventare ingranaggio della macchina democratica verso la quale, sia chiaro, siamo sempre diffidenti. Sullo sfondo, campeggiano le rivoluzioni regionaliste di cui vi parliamo ogni mese: quella scozzese, quella catalana e quella veneta. Votare Bassani vuol dire sostenere e far scoppiare, al più presto, quella lombarda: per questo il 24 e il 25 di questo mese potremmo pure evitare di turarci il naso.