lunedì 17 settembre 2012

Ciao, Camilla

di Paolo Amighetti, Miki Biasi e Damiano Mondini

Avrei preferito non scrivere le due righe che state leggendo. Tornando da scuola mi sarebbe piaciuto accendere il cellulare e trovare un messaggio di Camilla, con un suo suggerimento per il blog, con una proposta, un'idea, un ciao. Invece mi ha raggiunto la notizia che ha ridotto allo sgomento tutti noi. La conoscevo da pochi mesi, ma la sua appassionata intraprendenza e il suo invincibile ottimismo mi hanno segnato nel profondo. Negli ultimi quindici giorni ha dedicato molto del suo impegno e del suo tempo a questo blog, e quando noi della redazione le facevamo i complimenti rispondeva che il merito era nostro: «È stupendamente stimolante... Si lavora benissimo con voi!». Buon viaggio, Camilla. Il ricordo del tuo calore scioglierà il gelo che abbiamo dentro.

Io ti conoscevo da poco Camilla, ma posso dire che con i tuoi modi di fare sei stata capace di dare a me, che non avevo mai scritto un articolo in vita mia, una carica pazzesca.
Ho poca esperienza, lo so, ma posso dire che è raro trovare questi tre tipi di persone: quelle che rispettano gli altri; quelle che incoraggiano gli altri con sincerità; quelle che nutrono un profondo amore per la libertà.
Se una cosa ho capito, per quel po’ che ti ho potuta conoscere, è che tu racchiudevi quei tre tipi di persona in una sola.
Sono felice di averti conosciuto.

Non capita spesso di conoscere persone che siano in grado di coniugare l'intelligenza, la brillantezza, la simpatia e l'amore per la Libertà. Ho tuttavia avuto il privilegio di conoscerne una, si chiamava Camilla. Ci siamo incontrati per caso dando vita a questo blog. Ci siamo scambiati pareri, impressioni; abbiamo scherzato, ci siamo divertiti. Abbiamo passato del tempo assieme, anche se non ci siamo mai incontrati. Ho questo rimpianto: di non averle mai stretto la mano, di non averle mai parlato. Tuttavia ho incrociato la sua strada, anche se per troppo poco tempo, e tanto mi basta per dire che era speciale. Ci mancherai Camilla. Un abbraccio forte.

Renzi, liberista o socialdemocratico? (parte seconda)

di Damiano Mondini

- Debito pubblico. Fortunatamente, Renzi non afferma di voler ridurre lo stock del debito tagliando la spesa pubblica. Ha infatti sostenuto di voler destinare i risparmi di spesa alla riduzione del carico fiscale, oltre che alle suddette misure sociali. Se già questi intenti appaiono vagamente insostenibili, aggiungervi la decurtazione del debito vorrebbe dire vivere nel mondo delle favole. Renzi intende nondimeno abbattere il debito dello Stato mediante dismissioni del patrimonio pubblico, sulla traccia della proposta di ASTRID. Si tratta di quanto esposto in tandem da Amato e Bassanini: l’obiettivo è portare il debito ad un livello di sicurezza entro cinque anni, con una decurtazione complessiva di 150 miliardi, per poi ricondurlo entro il 2020 entro la soglia del 100% del PIL. Le modalità sono molteplici: vendita di immobili per 55-80 miliardi; cessioni di partecipazioni pubbliche per 40 miliardi; accordo fiscale con la Svizzera per la tassazione sui capitali non scudati, con gettito previsto di 13 miliardi; introduzione di incentivi e disincentivi per favorire l’allungamento delle scadenze del debito [1]. Nulla di particolarmente rivoluzionario, ed esprimo riserve su un’ulteriore tassazione dei capitali esteri: nondimeno, resta il fatto che si tratta di oro colato rispetto alle alternative politiche di gestione del debito, quanto meno finché non si conosceranno i futuri sviluppi di “Fermare il Declino” di Giannino.

Renzi, liberista o socialdemocratico? (parte prima)

di Damiano Mondini


Nell’attuale ed aberrante panorama politico, Matteo Renzi rappresenta un’isola felice in un mare in tempesta nel quale siamo destinati a naufragare. Non si tratta tuttavia di un merito del soggetto, semmai di un demerito del nobile consesso che lo circonda, tanto nel suo Partito Democratico quanto nelle altre variopinte forze politiche. Non mi prefiggo in questa sede di compiere un ritratto esaustivo di questo curioso personaggio, delle sue vicissitudini fiorentine e dei suoi battibecchi con l’establishment del PD – cose che peraltro gli fanno soltanto onore. Mi ripropongo soltanto di tratteggiare il suo programma politico-economico, sostanzialmente perché la prossima campagna elettorale verterà quasi esclusivamente su questioni di politica economica, che la crisi congiunturale rende particolarmente cogenti. Rilevo con una certa amarezza che i recenti dibattiti pro e contro Renzi – tanto à droite quanto à gauche – hanno sorvolato su questi punti programmatici, che al contrario io ritengo di fondamentale importanza, preferendo civettare sul “rottamatore” e sul “nuovo che avanza”, sempre con un retrogusto di “largo ai giovani”. Capirete la mia tristezza nell’affrontare questi argomenti, e perché di conseguenza preferisca soprassedere. Lascio ai miei colleghi delle grandi testate italiane, evidentemente molto più professionali e qualificate di questo blog, tutte le riflessioni sociologiche e psicoanalitiche intorno a Renzi. Procediamo invece – con molta meno poesia, lo ammetto -  a enucleare i suoi più rilevanti propositi economici.
- Considerazioni generali. Noto innanzitutto due elementi apparentemente contraddittori. Da una parte, Renzi si è testé recato alla convention democratica a Charlotte elogiando il riformismo – quello che noi chiamiamo “socialismo” – di Obama; dall’altra, in Italia presenta un programma che si colloca potentemente alla destra di Bersani e dei socialdemocratici del PD. Due sono le possibili conclusioni: o Renzi è bipolare, fa il progressive in America e il liberista in Italia; oppure, cosa che temo più probabile, il socialismo di Obama, qualora trapiantato in Italia, si configura come ultraliberale rispetto all’italico arco costituzionale. Se così fosse, a Renzi andrebbe almeno il merito di essere un socialista travestito da liberista. In ogni caso, il programma di politica economica di Renzi rappresenta una felice svolta liberaldemocratica all’interno del PD, e appare finanche più coraggiosa di certi moderatismi che ammorbano tanto l’UDC quanto, ahimè, il PDL, al quale ricordo di chiamarsi Popolo della Libertà.

sabato 15 settembre 2012

Baby-femministe, techno-provocatrici: le rivoluzionarie che si lasciano cliccare

di Camilla Bruneri


Questa volta la notizia viene dal primo numero del settimanale “F”, uscito in giugno. Ad aver colpito la mia attenzione è una cyber rivolta rosa partita da giovanissime utenti del web che, attraverso YouTube, blog privati e testate online (è proprio il caso di dirlo: e sarebbero questi i bei risultati dell'insegnamento dell'informatica nelle scuole?!), hanno cercato di sensibilizzare il mondo su tematiche economiche, alimentari e femministe.
Una domanda mi sorge spontanea: al di là della mia approvazione circa i contenuti delle iniziative di queste ragazzine, è giusto e condivisibile che minorenni appaiano come madrine cibernetiche politicamente corrette? Forse sì. Saranno però solo trovate pubblicitarie?
La prima protagonista di queste storie è la dodicenne Victoria Grant, che sul palco dell'incontro organizzato dal Public Banking Institute, a Philadelphia, ha criticato la scelleratezza dei banchieri canadesi. Il suo intervento di sette minuti ha sconvolto YouTube: il video ha superato infatti i 200mila clik, diventando una star sui siti Forbes e Financial Post. La bambina ha infatti lanciato accuse al governo e al sistema bancario del Canada, sostenendo che basterebbe eliminare le banche private, consentendo i prestiti di denaro solo da parte di aziende di credito controllate dal Governo: in pratica una nazionalizzazione del sistema bancario.
Oltre alla verve ammirevole, mi soffermerò successivamente circa i pensieri della Grant, con i quali non posso certo trovarmi d'accordo (possibile che il socialismo venga insegnato nelle scuole elementari?!), ciò che mi ha colpita maggiormente è la sconvolgente risolutezza di questa ragazzina.

Par tera, par mar: San Marco!

di Paolo Amighetti

Il Veneto è sottosopra. Il 22 maggio Lodovico Pizzati ha presentato al governatore Luca Zaia ventimila firme a sostegno di una petizione popolare per l'indipendenza: dopo aver esaminato la questione, il dirigente leghista ha «passato la palla», come si suol dire, al consiglio regionale. Che non ha esitato a definire inaccettabile la richiesta di un referendum separatista, rispettando le aspettative degli indipedentisti più scettici. Ovvio, il pretesto è ancora l'incostituzionalità. L'articolo 5 parla chiaro, e il suo monito stanco recita: «la Repubblica è una e indivisibile». Niente di nuovo, d'accordo.

Bisogna però rendersi conto di una cosa. Venezia, città straordinaria con più di mille anni di storia alle spalle, non ha dimenticato né la sua lingua (in Veneto si parla veneto: in Lombardia, per esempio, si parla l'italiano), né la sua vocazione europea.


giovedì 13 settembre 2012

Tutela dell’ambiente o libero mercato: è questo il vero dilemma?

di Miki Biasi


Bruno Leoni, filosofo del diritto e giurista torinese, insegnava, nelle sue “Lezioni di dottrina dello Stato”, la differenza fondamentale intercorrente tra due tipi di scelta: la scelta economica e la scelta politica.
Per poterla comprendere è quindi necessario rifarsi alle sue parole.

Con riguardo alle scelte economiche, egli affermava: 

nel dominio economico, si possono graduare le proprie scelte, in modo tale da escludere il meno possibile le alternative tra le quali si deve scegliere.

Questo concetto può essere spiegato, in parole più semplici, tramite un esempio:

se un individuo, non ha abbastanza denaro per comprarsi un apparecchio radio e per fare altresì un viaggio, può evidentemente scegliere o l’apparecchio o il viaggio, ma può anche fare un viaggio più breve e/o comperarsi un apparecchio radio di minor costo.


Per quanto riguarda invece le scelte politiche, la questione si pone diversamente. Infatti, il filosofo torinese affermava:

le scelte politiche sono invece (normalmente) di un tipo che comporta la mutua esclusione delle alternative fra cui ci si trova a scegliere; cioè sono del tipo o tutto o niente.

mercoledì 12 settembre 2012

Dalla Russia di Putin, la rivoluzione trendy



di Camilla Bruneri


Ho recentemente parlato del controverso mondo del femminismo "al femminile" nel mio articolo "Cinquanta sfumature di noi donne: cosa c'è oltre il femminismo", e abituandomi a sfogliare le riviste femminili, nella speranza di documentare ulteriormente il fenomeno, ho scoperto che la Russia delle Pussy Riot sta collezionando un vasto laboratorio di resistenza politica supportato soprattutto dalle donne. E dagli artisti.
Dal cinema alla musica, dalle mostre alla moda, il tormentone è ovunque. Le performance isolate, come quelle del gruppo Voina (Guerra), artisti-attivisti sociali al limite del teppismo, o le «monstratzie» di Artem Loskutov a Novosibirsk regolarmente sanzionate dalla polizia, diventano cortei e flash-mob, permettendo così alla protesta di entrare nel mainstream culturale.
Ma anche la moda si fa influenzare dalla «rivoluzione hipster»: a fissare la svolta, dopo il kitsch degli Anni 90 e il «glamour» del 2000, è il blog «Moda sulle barricate» (www.fashionprotest.ru), un’idea dello stilista Aleksandr Arutiunov: «Non ci sono più dubbi, salire sulle barricate è una nuova tendenza. Questo blog parla di persone che la rendono elegante e dignitosa. Personaggi, regole di stile, e tutto ciò che può esservi in comune fra rivoluzione e moda - o il contrario, decidete voi».

martedì 11 settembre 2012

NdA, “Nessuno degli Altri”: un’idea per il futuro dell’antipolitica


Da un’idea di Camilla Bruneri e Tommaso Cabrini, testo di Camilla Bruneri

Di cosa parliamo quando nei nostri discorsi ricorre il termine “antipolitica”? Principalmente parliamo di  un’alternativa che contempli il dialogo e la partecipazione, ma soprattutto l’impegno gravoso dell’assunzione di responsabilità, tematica a cui una cittadinanza assuefatta  al sistema delle rappresentanze è sempre meno abituata. Non siamo più capaci di comprendere il reale valore della libertà perché crediamo di possederla, crediamo che questa sia un bene svendibile, il che falsa decisamente la nostra percezione anche della già citata responsabilità.
Come proporre quindi una soluzione che permetta ai giovani, alle donne, a tutte le persone desiderose di fare impresa, agli investitori ed anche ai politici, di lavorare davvero, e di fare quindi antipolitica? Leggendo e valutando l’iniziativa che proponiamo in queste pagine che, prima di essere un vero e proprio movimento (o un manifesto), è principalmente un atteggiamento che spero molti di voi troveranno condivisibile. 
Questo progetto nasce dall’analisi di un fenomeno, legalmente riconosciuto e sancito, già in voga in alcuni paesi del mondo, che prima di ogni altra cosa rappresenta una manifestazione forte di dissenso. L’iniziativa è stata proposta da chi scrive (tramite la relativa pagina Facebook NdA) in collaborazione con un altro apprezzato editorialista di questa testata online, Tommaso Cabrini, brillante economista, molto prima dell’uscita del manifesto di Fermare il declino.
Vi propongo di seguito le informazioni già pubblicate sulla nostra pagina Facebook, rimandando alla fine della presentazione dell’iniziativa ad alcuni spunti di riflessione che vi invito a commentare. Nella neonata sezione dedicata ai progetti e alle iniziative di questo blog abbiamo soprattutto bisogno dei vostri suggerimenti!

[The Quarrel] Sviluppo, piani e ministri

di Tommaso Cabrini



Questa settimana annuncia molti impegni per il governo, che non rinuncia a fare politica industriale (parola bella per pianificazione economica di sovietica memoria).
Nodo aeroporti, invece di favorire una libera competizione tra aeroscali il governo preferisce mantenerne il saldo controllo statale e di esercitare con forza questo potere.
I successi di questa politica sono noti: Malpensa è un aeroporto scomodissimo, lontano da Milano, mal collegato alla città,

sabato 8 settembre 2012

"E non sono mai andato a scuola": una serata in compagnia di Andrè Stern

 
Nella Rubrica Le Petit Prince

di Camilla Bruneri


Bonne soir, je suis Camilla, je suis en fille de 24 ans, je n'aime pas les bonbons et malheureusement je suis allé à l'ècole. (Buona sera, mi chiamo Camilla, sono una ragazza di 24 anni, non mi piacciono le caramelle e purtroppo sono andata a scuola.) Ho studiato per tutta la vita, cercando disperatamente di essere coerente nelle mie scelte, cercando di non perdere tempo e non lasciarmi scappare nessuna occasione (anche quelle che sarei stata più felice di lasciarmi scappare), ho diffidato ma ho accettato tante cose solo per poterle inserire nel curriculum (forse uno degli esami più difficili che la scuola non ti prepara ad affrontare) e ora che sono alla fine, ora che la vita comincia a richiedere i sacrifici più grandi (come se non ce ne fossero già stati abbastanza), ora cerco altrettanto disperatamente di disimparare.
Vorrei raccontarvi in proposito una storia, una storia che viene dalla Francia, una storia che parla anche di noi!
Andrè non cerca di convincere nessuno, né di convertirlo, non vende nulla e non racconta la storia di un metodo.
Ciò che ha vissuto vale solo per lui, che non ambisce a divenire un modello: un ragazzo come tutti gli altri, semplicemente
con un percorso diverso, il cui corso naturale non è stato disturbato. Non suggerisce nulla in proposito,
soprattutto perché non si tratta di un'abitudine molto diffusa, bensì raccoglie un vasto numero di pregiudizi a questo riguardo.
Il pregiudizio principale è quello che senza scuola non possa esistere educazione, capacità di ottenere dei risultati o
che si rimarrà analfabeti e asociali. Niente diploma ovvero niente lavoro, ma non è così. Non siamo liberi di fare scelte
personali perchè non abbiamo modo di poterci confrontare con altre alternative. Se si pensa che la scuola rappresenti l'unica risposta, ci troviamo davanti allo stesso numero di scelte lasciate da Ford quando diceva "Potete scegliere il modello d'auto che preferite purché il colore sia il nero!"
Questo è il racconto che Andrè Stern ci ha fatto durante una splendida conferenza, tenuta a Bergamo lo scorso marzo, riportato anche nelle testimonianze raccolte nel suo libro autobiografico "Et je ne suis jamais allé à l'ècole", edito dalla casa editrice francese Actes Sud. Probabile una prossima edizione italiana.
 Ho preso in prestito le sue stesse parole nell'apertura di questo pezzo, con una differenza: Andrè non è mai andato a scuola! 



Queste sono alcune domande poste ad Andrè durante la serata, spero potranno dare a molti genitori volenterosi un motivo in più per sperare in un mondo migliore.

venerdì 7 settembre 2012

Huerta de Soto: un austriaco a difesa dell'euro (parte seconda)

di Damiano Mondini
- Viva l’euro, abbasso la BCE. Nonostante quanto fin qui sostenuto a favore dell’euro, Huerta de Soto afferma di rimanere un “euroscettico che ritiene che l’Unione Europea dovrebbe limitarsi esclusivamente a garantire la libera circolazione di persone, capitali e beni in un ambito di moneta unica (meglio se regime aureo)”; muove di conseguenza aspre critiche all’assetto istituzionale europeo e ai suoi problemi strutturali, dei quali la moneta unica non fa tuttavia parte. Le difficoltà economiche e sociali che ammorbano l’Eurozona sono infatti ascrivibili alla politica monetaria operata dalla Banca Centrale Europea, oltre che alla pressante regolamentazione che si accompagna al processo di progressiva centralizzazione politica [8]. Quest’ultima viene peraltro sostenuta sia dai “fanatici dell’euro”, sempre pronti a sostenere ogni possibile ampliamento del potere e del centralismo di Bruxelles, sia dai suoi detrattori più accaniti, che la considerano un detonatore che potrebbe rivelarsi fatale per la stessa moneta unica.

[The Quarrel] Toglietemi tutto ma non i 50 euro.

di Tommaso Cabrini


Cominciamo con l’unica buona notizia (cosa volete… c’è crisi…): il pagamento elettronico sopra la soglia dei cinquanta euro non sarà, come ventilato, un obbligo.
Non lo sarà, innanzitutto, perché il governo non ha ancora deciso,

giovedì 6 settembre 2012

[The Quarrel] Spread a 200!

 di Tommaso Cabrini

Solo ieri la Banca d'Italia, forte delle sue menti keynesiane arriva a dire che il corretto spread italiano dovrebbe essere 200 punti base.
Nulla di sorprendente, semplicemente un'altra (non necessaria) conferma

mercoledì 5 settembre 2012

Huerta de Soto: un austriaco a difesa dell'euro (parte prima)

di Damiano Mondini



Si tiene in questi giorni a Praga l’annuale seminario della Mont Pèlerin Society, l’organizzazione internazionale fondata da F. A. Hayek nel 1947 con lo scopo di diffondere e difendere i più sinceri ideali liberali [1]. Il 3 settembre è intervenuto l’economista spagnolo di Scuola Austriaca Jesùs Huerta de Soto, con un discorso i cui contenuti sono ampiamente sviluppati in un occasional paper pubblicato da IBL col titolo In difesa dell’Euro: un approccio austriaco. Chi scrive ha dato una lettura abbastanza approfondita al testo, e intende svilupparne in questa sede una ragionata – e si spera anche sensata – analisi sintetica. Premetto fin da subito di condividere ogni riga scritta da Huerta de Soto, le cui lezioni di Economia Politica sono peraltro brillantemente riportate nel libro a Scuola di Economia, a cura di Francesco Carbone ed edito da USEMLAB. Il sottotitolo del testo illustra una parte integrante delle tesi argomentate dall’autore: Con una critica agli errori della BCE e all’interventismo di Bruxelles. In effetti, l’intervento si articola in una difesa “congiunturale” dell’Euro, in una critica dei suoi detrattori d’ogni sorta e della politica economica e monetaria posta in essere dalla Banca Centrale Europea. Vediamone i principali step:

martedì 4 settembre 2012

Quella libertà economica così individualista ed egoistica


di Miki Biasi

Ogni volta che qualcuno pronuncia in pubblico una frase a difesa della libertà economica e del sistema di libero mercato una delle obiezioni più immediate risulta essere questa:
 Ma troppa libertà economica non significherebbe esclusiva ricerca del profitto? Ciò non potrebbe che condurre gli uomini ad isolarsi sempre più, pensando solo a se stessi e al proprio giardino.

Coloro che formulano tali obiezioni ritengono che l’uomo non dovrebbe essere lasciato libero nello stabilire le relazioni con i propri simili, in quanto ciò ridurrebbe la società a meri individui capaci di pensare solo a se stessi ed incapaci di collaborare volontariamente con gli altri per il raggiungimento di fini comuni.
Proprio con il fine di evitare questa situazione poco gradita, sempre gli obiettori di cui sopra, sostengono che la soluzione consista nel far “muovere” gli uomini lungo le linee predeterminate dalla politica in modo da ottenere relazioni inter-individuali certe, benefiche e tipizzate (per quest’ultimo carattere dunque facili da tenere sotto controllo).
Ma cosa significa esattamente far “muovere” gli uomini lungo le linee predeterminate dalla politica?

Alternative educative: uno sguardo all’homeschooling


Nella Rubrica Le Petite Prince

di Camilla Bruneri

Vale la pena anche analizzare un altro interessante fenomeno: l’homeschooling. 

“La scuola è come una prigione. Questa frase è un eccesso? E' un'analogia? Vi dico la mia. Perché la maggior parte dei bambini non ama andare a scuola? E' ovvio: i bambini desiderano essere liberi e la scuola li priva di questo diritto fondamentale.
Tutti desideriamo essere liberi, possiamo dirlo ad alta voce, possiamo pensarlo e basta, ma è palese che, per gli esseri umani uno dei bisogni primari sia la libertà. Purtroppo per una grande porzione della popolazione italiana la scuola è un obbligo per legge: i genitori credono di non avere alternative, difficile è trovare scuole veramente libere o decidere di fare educazione parentale.
La situazione nelle scuole sta  peggiorando di anno in anno: le classi sono sempre più numerose, gli insegnanti non offrono una continuità di relazione, i momenti di svago sono tenuti al minimo, le gite cancellate per mancanza di denaro, gli atti di bullismo sono in aumento così come i casi di disturbo da deficit d'attenzione ed iperattività, dislessia e quant'altro. Vi siete chiesti come mai? I bambini a scuola non sono liberi, come credete che possano apprendere in un ambiente coercitivo?

Biografie: Murray Newton Rothbard

di Paolo Amighetti


La vita
Murray Newton Rothbard nacque a New York il 2 marzo 1926. I suoi genitori, sbarcati in America in cerca di fortuna, erano ebrei; il padre era nato a Varsavia e la madre a Minsk. Fatta eccezione per il padre David, tutta la famiglia Rothbard, come buona parte della classe media ebrea newyorkese, era vicina al marxismo. Ricorda lo studioso: "la grande questione morale nelle vite di tutta questa gente era: «Devo entrare nel Partito Comunista e dedicare totalmente la mia vita alla causa o posso rimanere un buon compagno dedicando egoisticamente solo una frazione della mia energia al comunismo?»".[1] Il giovane Murray, "di destra e duramente antisocialista fin dall'inizio", faceva proprie le posizioni del padre, che credeva piuttosto nel sogno americano e nelle virtù del governo minimo. Negli anni Quaranta, Rothbard si iscrisse alla Columbia University e si laureò in matematica. Ma si considerava soltanto un economista favorevole al libero mercato.

Alternative educative: una storia Svizzera


Nella Rubrica Le Petite Prince

di Camilla Bruneri


Un parto difficile e un bambino che, con il tempo manifesta difficoltà nella parola e nel movimento. Questa è la storia di Elia, pubblicata su Vanity Fair della scorsa settimana. Il racconto a lieto fine di due genitori che hanno un bambino affetto da disprassia, una sindrome poco conosciuta in Italia. Si tratta di un disturbo della pianificazione dell'atto motorio che causa un deficit nel percorso di apprendimento e verbalizzazione. Chi ne soffre, pur essendo dotato di normale intelligenza, fatica a parlare, a usare un linguaggio adeguato al contesto, a mettere insieme gli elementi della realtà, e così diventa complicato anche correre, andare in bici, diventare autosufficienti.
Il protagonista di questa storia è Elia, un bambino che ora ha 5 anni e mezzo e che soffre di questo disturbo. I genitori, Natalia e Alessio Pizzicannella, raccontano a Vanity, di essersi trasferiti in Svizzera, a Locarno perché avevano capito che in Italia, il piccolo non sarebbe stato seguito seriamente dalle strutture pubbliche. Da settembre Elia andrà all'asilo, all'Istituto Sant'Eugenio, dove vengono seguiti anche bambini con disturbi del linguaggio e dell'apprendimento. Natalia e Alessio raccontano la sensazione di stupore provata per l'accoglienza ricevuta e l'aiuto e la disponibilità manifestati dall'Istituto e dal Supporto Pedagogico della città. Non solo: oltre alle cure (per via privata) ricevute in Italia, l’istituto svizzero ha anche consigliato alla famiglia di rivolgersi ad un osteopata craniale che, con due sole manipolazioni delle ossa craniche, ha permesso al bimbo di ricominciare a muoversi normalmente. Ora Elia sfreccia in bicicletta senza rotelle.

Il paradosso dei carburanti

di Tommaso Cabrini


Ieri sono finiti gli sconti carburante proposti dall’ENI, prontamente imitati da diversi concorrenti. Il risultato è stato immediato: i media si sono lanciati a parlare del caro carburanti.
Partiamo sfatando un falso mito, la colpa del prezzo dei carburanti non è di petrolieri avidi, che hanno proposto per tutta estate i loro prodotti sottocosto, o dei benzinai (anche se un po’ di concorrenza in più non fa mai male). Non possiamo neanche dare la colpa ai perfidi produttori, non ci sono squilibri gravi tra domanda e offerta che stritolino i prezzi.
Basta entrare un pochino nel problema e subito si individuano i colpevoli: lo Stato e ancora lo Stato, colpevole al quadrato!

lunedì 3 settembre 2012

Why I am not a neo-conservative

di Damiano Mondini



Gli americani saranno all’altezza del compito di mantenere la supremazia statunitense e di fare uno sforzo continuo per plasmare l’ambiente internazionale? Sì, se i leader politici americani avranno l’intelligenza e la volontà politica per fare ciò che è necessario. […] Mantenere la supremazia americana non vale forse un aumento della spesa della difesa, dal 3 al 3,5% del Pil?


Così scrivevano Robert Kagan e William Kristol in Present Danger, un articolo apparso sulla rivista americana The National Interest nella primavera del 2000. Nell’articolo i due illustravano nel dettaglio la loro opinione intorno al ruolo strategico internazionale degli Stati Uniti d’America. Quello scritto incarnava altresì l’essenza della matrice ideologica da cui provenivano gli autori, vale a dire il neoconservatism. Ed eccoci giunti al perché di una citazione apparentemente inusuale per il nostro blog. Il pensiero neo-con rappresenta infatti uno dei nemici principali e più agguerriti del limpido libertarismo che andiamo difendendo; e la miglior strategia difensiva, almeno in questo caso, consiste innanzitutto nel comprendere la forma mentis dell’avversario: per evitare di cadere nelle sue trappole e soprattutto per tentare di contrastarlo. Invero, fino a qualche tempo fa ero persuaso che le reali insidie per gli ideali liberali fossero il socialismo da una parte e il left-liberalism dall’altra; non ritenevo così cogenti le minacce e il fuoco amico di certi ambienti conservatori. D’altronde, mi sono sempre considerato più attiguo ad un tradizionale conservatorismo che non al progressismo politically correct dei liberals americani e dell’intellighenzia perbenista europea.

Cinquanta sfumature di noi donne: cosa c'è oltre il femminismo

di Camilla Bruneri

Cosa troviamo oltre il tacco dodici, il filo di fard e gli occhialini da intellettuale, che molte donne sfoggiano come un’uniforme? Le instancabili camminatrici del traffico, perennemente in bilico tra una crisi di nervi, le lezioni di piano del figlio e la riunione del CdA per cui lavorano?! La risposta, di una semplicità quasi disarmante, è no. Questo no non è un rigurgito femminista di un’esponente della categoria, né un tentativo di risollevare un tormentone estivo che ha, per lo meno, dimostrato di essere un sicuro investimento editoriale. Le parole della donna che sta dietro questo pezzo vengono da una riflessione quotidiana sul senso della presenza della donna nella società, che vuole essere privo di giovanilismi e falsi miti.
Proprio da questo argomento vorrei cominciare: il mito. Sin dall’antichità alla donna è stata data una parte chiave nel misterioso teatro famigliare, che l’ha accompagnata nelle epoche dandole la riconosciuta importanza che anche oggi le viene attribuita. Con un problema di fondo però, rappresentato dalla frustrante corsa alla parità che altrettanto ha accompagnato le donne in tutte le vicende sociali che le hanno viste protagoniste. Due miti ricorrono in questo caso: la donna focolare e colonna portante della famiglia contro il modello della suffragetta.

Noise from Tea Party, le origini

di Damiano Mondini

Mi trovo a riflettere su un fatto singolare: nonostante scriva già da qualche tempo su questo blog, e citi spesso il nome che porta con orgoglio, non ho finora avuto modo di illustrarne l'origine. E' quasi come avessi dato per scontate le sollecitazioni - i sogni, le speranze, le illusioni - che una tale denominazione suscita. Si presenta tuttavia in questi giorni un'opportunità imperdibile per indagare anche tale questione. Mi riferisco alla partecipazione diretta ed entusiasta di Noise from Tea Party ad un ardimentoso progetto editoriale on line, il neonato blog libertario The Road to Liberty. Ecco, partiamo dallo spiegare questa coraggiosa iniziativa. Innanzitutto, ascriviamo il merito a chi spetta: un grazie caloroso e sentito - odio ripetermi, ma è così - al "direttorissimo" Paolo Amighetti, che ha avuto il guizzo di mettere in piedi questo progetto; un grazie natualmente anche agli altri redattori di The Road to Liberty, Camilla Bruneri, Tommaso Cabrini e Miki Biasi, con i quali instaureremo senza ombra di dubbio una collaborazione proficua. Sostanzialmente, si tratta di un blog a più mani, redatto da giovani libertari, avente lo scopo di sostenere e diffondere quegli ideali di libertà che vedete sovente propagandati nei miei interventi. Dunque, una piena convergenza di obiettivi e di sensibilità. Non solo: alla vicinanza delle idee si aggiunge la molteplicità degli interessi e dei temi messi a fuoco, che rende la prospettiva di lettura sul mondo ancora più completa e stimolante. A tal proposito, mi sento in dovere di motivare la mia particolare posizione all'interno di questa ristretta - almeno per ora - galassia libertaria. I miei interessi probabilmente sono noti: l'economia, la scienza fondamentale dell'azione umana, per citare una suggestione di Ludwig von Mises; la politica, osservata naturalmente con lo sguardo critico e scettico dell'anarchico bacchettone che in fondo sono ("nel fondo di ogni pensatore autenticamente liberale si nasconde un anarchico", scrive Luigi Marco Bassani); il subbuglio, reale o presunto, cui stiamo assistendo in questi ultimi mesi all'interno del fronte - invero quanto mai variegato - dei liberali italiani; le vicissitudini degli States, la "nuova frontiera" divisa in questi giorni fra lo statalismo dichiarato di Obama e il liberismo sedicente di Romney e Ryan, e che sembra aver voltato le spalle all'unico vero difensore della libertà, Ron Paul; infine, last but not least, posso con qualche ragione vantarmi - cosa questa che di norma faccio volentieri - di essere "l'uomo del Tea Party", un sincero ed entusiasta sostenitore delle idee e delle battaglie di questo movimento, tanto negli USA quanto in Italia. E chiudiamo quindi circolarmente con il problema con cui ho esordito: le ragioni di questo blog e del suo nome. Rimando al futuro una trattazione più dettagliata della storia del Tea Party, dal 1773 fino ai più recenti sviluppi; in questa sede mi preme soltanto sottilineare le principali sfide che questo movimento popolare ha fronteggiato con coraggio. Il 16 dicembre 1773, la protesta dei coloni di Boston contro l'esasperante livello raggiunto dal carico fiscale reale a seguito del Tea Act; negli ultimi mesi del 2008, contro il bailout di Stato promosso dal Presidente repubblicano - repubblicano! - George W. Bush, col ringraziamento delle banche falcidiate dalla crisi finanziaria innescata dalla bolla subprime; nel biennio 2009-2010, le proteste di piazza sempre più consistenti contro il dirigismo di Obama, la  micidiale riforma sanitaria Obamacare e i molteplici tentativi di vulnerare la Costituzione; lo sbarco in Italia ad opera di David Mazzerelli e Giacomo Zucco, con la nascita di un movimento sempre in prima fila contro le vessazioni del fisco e dello Stato ladro e "tassicodipendente". Potrei continuare, ma questo basta: il mio feroce antistatalismo si ritiene perfettamente allineato cogli ideali e coi metodi del Tea Party Italia, e il mio animo larvatamente movimentista - pressante ma velleitario - sostiene con passione le sue lotte. Dunque eccomi qui, a tentare di leggere la realtà - o almeno qualche sua infinitesima sezione - coll'occhio analitico dell'economista in erba e dell'aspirante tea partier. Questo sono io, e questo è Noise from Tea Party: un'enclave, millimetrica ma stabile; un baluardo, ininfluente ma convinto, a difesa della più autentica Libertà.

domenica 2 settembre 2012

Ripartire da Giannino? (parte terza)

di Damiano Mondini


7) Far funzionare la giustizia. Sostanzialmente si tratta di renderla più rapida, efficiente e competitiva, oltre che indipendente dai gruppi di potere e dalla longa manu della politica. Ovviamente nulla da obiettare, anche se da un senior fellow dell’Istituto Bruno Leoni (che anche dal nome si capisce essere particolarmente sensibile al tema della giustizia) mi sarei aspettato una tematizzazione esplicita di riforme più marcatamente liberali, come la promozione in sede civile, penale e amministrativa di pratiche di arbitrato. Da anarco-capitalista dovrei poi forse azzardarmi a parlare di denazionalizzazione/privatizzazione delle attività di law and order, ma un rassegnato realismo mi impone di soprassedere.

8) Liberare le potenzialità di crescita, lavoro e creatività dei giovani e delle donne. L’intento è chiaramente meritorio essendo la crescita, il lavoro e la creatività connotati essenziali di un’economia di mercato. L’importante è che la crescita non sia finanziata a suon di spesa pubblica, perché in tal caso darebbe luogo ad uno sviluppo soltanto fittizio di alcuni settori, rinvigorendo per giunta il parassitismo dilagante e avvantaggiando i soliti noti in grado di ingraziarsi qualche pubblico ufficiale ben disposto. Che poi i sussidi di disoccupazione servano ad incentivare l’occupazione mi pare un’evidente non sequitur, come pure sono dubbioso riguardo alle quote rosa e alle “quote giovani” coatte, quando al centro dell’attenzione dovrebbero esserci le competenze personali, il know how e una sana competizione volta all’efficienza e al miglioramento. Fa comunque piacere leggere di una ritrovata meritocrazia di cui abbiamo estremo bisogno, come pure del proposito di “facilitare la creazione di nuove imprese”, magari rimuovendo ostacoli all’offerta (leggi meno burocrazia, meno tasse, meno regolamentazione, meno oppressione sindacale, meno corporativismo): chissà che magari non tornino di moda la supply-side economics e la curva di Laffer.

9) Ridare alla scuola e all’università il ruolo, perso da tempo, di volani dell’emancipazione socio-economica delle nuove generazioni. Lo si dice esplicitamente: lo Stato non dovrà, in questi settori, spendere meno; dovrà spendere di più e meglio. Sappiamo dove porta la retorica della “razionalizzazione delle spese”: a tagli inconsistenti sul modello montiano della spending review e magari all’incremento di altre voci di spesa ritenute indispensabili da quella stessa intellighenzia intellettuale che se ne avvantaggia. Non vi è naturalmente nulla di sbagliato nell’introdurre nel sistema scolastico elementi di concorrenza fra istituti, meritocrazia per alunni e docenti e sostegno al merito; accolgo altresì con rinnovata gioia la proposta, che sostengo da tempo in prima linea e a cui sono particolarmente affezionato, di abolizione del valore legale del titolo di studio (lo dice anche il “progetto di libertà” del Tea Party: è l’unico modo per evitare che la scuola rimanga quel titolificio corrotto e inefficiente che è). L’incapacità cronica della macchina statale di gestire con efficienza e prontezza la scuola pare tuttavia ormai endemica (e non è colpa dei “tagli” della Gelmini, che erano solo riduzioni di previsioni di aumento di spesa, cosicché i soldi per la scuola venivano ogni anno incrementati): sarebbe dunque necessario auspicare forme di finanziamento e gestione privata della scuola, magari favorendo un legame più stretto col mondo dell’impresa; il settore andrebbe inoltre liberalizzato, evitando così a chi voglia servirsene sul mercato di pagare cifre astronomiche conseguenze dei mille balzelli imposti dallo Stato agli istituti privati, oltre che di una mancanza di vera concorrenza causata dall’iper-regolamentazione. In prima battuta non sarebbe poi così catastrofico adottare il sistema dei vouchers delineato da Milton Friedman e promuovere l’homeschooling, che sono peraltro da tempo battaglie sostenute con forza dell’Istituto Bruno Leoni.


10) Introdurre il vero federalismo con l’attribuzione di ruoli chiari e coerenti ai diversi livelli di governo. Il federalismo fiscale e amministrativo, nella formulazione datane dalla riforma del centrosinistra del titolo V e dalle successive integrazioni leghiste, ha dato ampie dimostrazioni del proprio vergognoso fallimento. Un tema caro ai libertari e a chi lotta per l’autodeterminazione è stato così vituperato e screditato dall’uso deleterio che ne hanno fatto le nostre beneamate élites politiche, che personalmente, divergendo dall’analisi del grande Gaetano Mosca, definirei una minoranza disorganizzata. Dubito di conseguenza che siano sufficienti la richiesta di maggior trasparenza, lo spauracchio della gogna e il premio ad una gestione oculata per risanarne le attuali numerosissime “linee di faglia”. Se nella logica concorrenziale del mercato l’apologo del bastone e della carota funziona (se lavori bene e ad un buon prezzo prosperi, altrimenti sei fuori gioco), esso ha molta meno presa nell’amministrazione pubblica, in cui i lavativi raramente vengono puniti (leggi “licenziati in tronco senza tutele ex articolo 18”) e i meritevoli continuano con ogni probabilità a far la fame nel regno di “Mediocristan”, per citare Il cigno nero di Nassim Taleb. L’autentico federalismo non può dunque prescindere da una più ampia riforma dell’apparato pubblico, da una semplificazione burocratica e da una preventiva liberalizzazione di quegli svariati servizi che il mercato saprebbe gestire molto meglio e a prezzi concorrenziali. Solo così sarà auspicabile una progressiva decentralizzazione delle funzione amministrative e, perché no, altresì di quelle legislative, esecutive e giudiziarie. Va inoltre ribadito che l’autonomia di spesa degli enti locali non va intesa come un’autorizzazione ad indirizzare in senso vertiginosamente incrementale le uscite, a danno dei cittadini strozzati dalle gabelle e mazziati a suon di debito; è poi necessario che eventuali inefficienze di singoli enti territoriali siano tamponate dagli stessi in prima persona, magari con dismissioni patrimoniali e tagli di spesa, e non spalmate sull’intero Paese grazie a tempestivi sussidi e salvataggi di Stato. A tal ultimo proposito, taccio per amor di patria (in senso letterale) della “questione meridionale” e di come essa andrebbe realmente risolta: qui habet aures audiendi, audiat.
Concludendo, è possibile affermare che in queste dieci proposte c’è sì molto di positivo e auspicabile, ma altrettanto di negativo ed esecrabile. Il marcato opportunismo non è tuttavia confermato soltanto da ciò che c’è nel manifesto, bensì soprattutto da ciò che manca. Non vi è infatti traccia di quella che un economista italiano di Scuola Austriaca che stimo molto, Francesco Carbone, ha definito come la questione fondamentale da dirimere in un’ottica libertaria, vale a dire la politica monetaria. Come del resto potremmo definire autenticamente liberale/liberista un’economia basata sulla discrezionalità monetaria e la gestione arbitraria dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali (FED in America e BCE in Europa)? L’espansionismo monetario che (ribadiamolo) sta all’origine dell’attuale crisi economica, così come del crack del 1929, non è una questione marginale: è il nocciolo fondamentale del problema, o quanto meno ne è parte integrante. Ignorarla per spirito opportunistico o – non voglio pensarlo - per disonestà intellettuale è probabilmente il peggior errore compiuto da Giannino e da quanti intorno a lui si autoproclamano difensori del libero mercato. Fintanto che non si mette in discussione la sovranità monetaria dei governi e delle banche centrali non si può in alcun modo definirsi tali: o meglio, si può, come fanno gli economisti della Scuola di Chicago, ma con risultati deleteri che rischiano di affossare invece che innalzare i valori di un autentico liberalismo.

P.S.= Leggo in questi giorni con rammarico che Oscar Giannino avrebbe in animo di privatizzare alcune grande aziende mantenendo la golden share (ovvero la “partecipazione d’oro” dello Stato) per “evidenti motivi di utilità nazionale strategica”. Questo è più che essere oppurtunisti: è essere ipocriti.

Ripartire da Giannino? (parte seconda)

di Damiano Mondini

4) Liberalizzare rapidamente i settori ancora non completamente concorrenziali. Nella fattispecie si tratta di privatizzare/liberalizzare servizi e società pubbliche (prima fra tutte la RAI, con annessa abolizione del canone per la gioia dei Tea Party), rendere la concorrenza il fulcro della nostra economia e contrastare monopoli e privilegi d’ogni sorta. E’ questa una tappa ineludibile di ogni road-map che intenda seriamente smantellare il corportativismo di Stato, estirpando alla radice quelle logiche clientelari e parassitarie che funestano il sistema economico italiano. Suggerirei in ogni caso ai commandos di Giannino di ribadire con forza la fondamentale distinzione fra monopoli/oligopoli legali, ossia gestiti, costituiti o comunque protetti dai pubblici poteri, e monopoli/oligopoli di fatto, conseguenze spesso inevitabili, ma per nulla tragiche e quanto mai transeunte, del continuo processo evolutivo che caratterizza il libero mercato; non vorrei insomma che nel limpido liberalismo di questa proposta si insinuassero capziosi costrutti economici di matrice neoclassica, che con l’ossessione walrasiana per l’equilibrio di mercato tanto male hanno fatto all’autentica concorrenza, e che stanno alla base della micidiale moderna legislazione antitrust (si vedano a questo proposito gli studi di Alberto Mingardi ed Enrico Colombatto pubblicati da IBL Libri)

5) Sostenere i livelli di reddito di chi momentaneamente perde il lavoro anziché tutelare il posto di lavoro esistente o le imprese inefficienti. Nella specifica si fa esplicitamente riferimento ad un “sussidio di disoccupazione” che dovrebbe essere dispensato – presumo – dallo Stato, e finanziato con gioia – continuo a presumere – dai contribuenti. Sia chiaro: passare dall’attuale ipertrofica difesa del posto di lavoro e delle imprese decotte, con tutta la cancrena che questa comporta, ad una più elastica tutela del singolo lavoratore rappresenta certamente un passo avanti; e in questo senso è confortante sentire che il ministro del Welfare, Elsa Fornero, è di questo parere e può affermare senza tema che “il lavoro non è un diritto”. Non posso comunque esimermi dall’esprimere pesanti dubbi riguardo all’efficacia dell’introduzione di un salario minimo fornito con la forza della coercizione (leggi “imposizione fiscale”) dalla parte produttiva del paese a quella, vuoi anche incolpevolmente, improduttiva. Più sensato sarebbe incentivare e defiscalizzare pratiche di assicurazione volontaria, carità privata, mutuo soccorso e solidarismo spontaneo sul modello no-profit. Debellare i privilegi sindacali e decurtare pesantemente la tassazione su lavoro e impresa sarebbe altresì un modo per favorire l’occupazione, molto più efficace dell’incentivo pubblico a rimanere disoccupati. In caso contrario le retoriche dello welfarismo redistributivo continueranno a fornire un valido argomento per le strumentalizzazioni di marca statalista, e dubito che tale sia l’intento dei firmatari dell’iniziativa.

6) Adottare immediatamente una legislazione organica sul conflitto d’interesse. Noto con sorpresa la comparsa, per la prima volta nel manifesto, dell’avverbio “immediatamente”, e apprendo con vivo stupore che esso non è seguito da espressioni quali “decurtare la pressione fiscale”, “ridurre la spesa pubblica” o “liberalizzare i servizi” (quest’ultima operazione è da svolgersi soltanto “rapidamente”). Esso viene invece utilizzato per la prima ed unica volta per auspicare una legislazione sul conflitto d’interesse che, al di là della sua intrinseca utilità, pare di meno cogente necessità rispetto alle riforme appena citate. Dal “liberista” Giannino mi sarei aspettato una maggiore solerzia nei riguardi del ridimensionamento dello Stato e nella promozione del mercato. Questo punto mi pare un tentativo, decisamente goffo, di ingraziarsi una parte dell’intellighenzia giustizialista che, poco interessata al riformismo liberale, potrebbe venir attratta da eccitanti prospettive di una ulteriore regolamentazione legislativa e giudiziaria dell’economia. Che la lotta alla corruzione, pratica questa tipicamente statale, debba essere posta in essere – “immediatamente”! – dallo Stato medesimo, mi pare poi una assurdità logica poco degna dell’onestà intellettuale di Giannino. Sospetto quindi che vi sia lo zampino di qualche legalista promotore del manifesto. Ciò nondimeno mi esimo dal far nomi, evitando accuratamente di citare Michele Boldrin.


[continua]

Ripartire da Giannino? (parte prima)

di Damiano Mondini




Premetto innanzitutto di aver firmato senza esitazione il manifesto promosso nelle scorse settimane dal giornalista Oscar Giannino, per la stima personale da me provata nei confronti suoi e di numerosi altri firmatari dell'iniziativa. Va riconosciuto che le dieci proposte di "Fermare il Declino" sono, nell'attuale disastrato panorama politico, una boccata d'aria fresca. Dinnanzi ad un PDL ormai completamente deragliato dal binario della Libertà, ad un PD che ha deviato da esso molto tempo fa e alle altre forze politiche minori lontane anni luce degli ideali liberali (con eccezioni talmente rare e puntiformi da essere irrilevanti), risulta difficile non apprezzare questo barlume di speranza. Sono per attitudine incline all'ottimismo, nondimeno vorrei evitare di cedere ad un eccessivo entusiasmo nei riguardi di questa iniziativa. Benché ne apprezzi alcune sollecitazioni, e ne comprenda gli intento di fondo, mi sento comunque in dovere di avanzare alcune personalissime riserve, sia sull’impianto generale che su alcuni particolari delle dieci proposte. In primo luogo, rilevo con profondo dispiacere l’esplicito intento dei promotori di espungere qualsivoglia orizzonte ideologico dal progetto: se comprendo perfettamente la ratio di una tale operazione (ovvero imbarcare quanti più sostenitori possibili dalle svariate sensibilità politiche), ritengo in ogni caso più dannoso che altro il mancato ancoramento ai solidi ideali liberali che questa associazione dovrebbe portare avanti; in questo modo, pur ammettendo di moltiplicare i consensi, si rischia di cadere in quell’opportunismo che avvelena la politica da troppo tempo. Non soltanto questo mi fa sospettare un atteggiamento opportunista da parte dei promotori: anche l’estrema prudenza mostrata nei dettagli delle proposte mi fa temere che questo gradualismo si tradurrà (nella migliore delle ipotesi) in un futile immobilismo, sempre che l’intento compromissorio non finirà per far avallare dei passi indietro invece che dei timidi passi avanti. A tal proposito, taccio per amor di patria di alcuni rumors che vorrebbero l’iniziativa di Giannino vicina ad ambienti confindustriali (ricordo che Confindustria vuol dire mercantilismo, non libero mercato!), pidiellini o leghisti; spero siano solo calunnie, e perciò non intendo avallare il dubbio discutendone. Veniamo ora ad una breve analisi delle "10 proposte", che schematizzo per rendere più gradevole la lettura:


1) Ridurre l’ammontare del debito pubblico. E’ chiaro che questa deve essere la bussola di qualsiasi movimento/partito politico, soprattutto allorquando si trova ad occupare incarichi di governo o a sedere nelle nobili aule del Palazzo. Se davvero lo si facesse scendere sotto la soglia del 100% del PIL attraverso cessioni di attivi patrimoniali pubblici (immobili, partecipazioni azionarie), privatizzazioni/liberalizzazioni dei servizi e drastici tagli di spesa (magari anche dei costi della politica), sarei assolutamente d’accordo. L’importante è che non si continui a fare aggio sull’avanzo primario, ossia spremendo i contribuenti con nuove tasse e aliquote sempre più vertiginose, o magari inventandosi un’altra patrimoniale sul lusso per punire l'antisociale egoismo dei "ricchi", o un prelievo forzoso sui conti correnti sul modello Amato. Poiché mi pare che Giannino escluda categoricamente questa seconda opzione e sostenga con forza la prima, direi che su questo mi trova assolutamente dalla sua parte.


2) Ridurre la spesa pubblica di almeno 6 punti percentuali del PIL nell'arco di 5 anni. Ho appena detto che i tagli di spesa dovranno essere drastici: se optiamo invece per questo stomachevole gradualismo, prima che le decurtazioni di spesa facciano sentire i loro effetti benefici e permettano di ridurre la pressione fiscale temo che saremo al parco giochi coi nostri pronipoti (intendeva forse questo John Maynard Keynes quando disse che "nel lungo periodo saremo tutto morti"?). Si dovrebbero invece rigettare una volta per tutte le logiche parassitarie della spesa finalizzata alla crescita e le indecenze dell'ideale socialista della redistribuzione. E' però necessario farlo nel più breve tempo possibile, prima che il sistema si renda del tutto irriformabile, condannandosi così ad un impietoso (ma forse inevitabile) fallimento. E dubito seriamente che, nelle attuali condizioni sociali ma soprattutto culturali, il default aprirebbe le porte ad un futuro libertario: più che la rivoluzione americana ci attende il tracollo di Weimar.


3) Ridurre la pressione fiscale complessiva di almeno 5 punti in 5 anni. E’ inutile che mi ripeta: chiaramente si va nella direzione giusta (ricordo il motto del Tea Party, "meno tasse e più libertà!"), ma con questi ritmi non solo fra cinque anni saremo sostanzialmente al punto di prima, ma considerando come funziona la politica c’è seriamente da sospettare che staremo messi sempre peggio. Ricordo che attualmente la pressione fiscale "ufficiale" si situa intorno al 45% e quella realmente percepita dai contribuenti al 55%; persino Attilio Befera qualche settimana fa sosteneva, con una notevole faccia tosta, che alcuni imprenditori sopportano anche un livello di imposizione fiscale vicino al 70%, vivendo cioè per mantenere quella bestiaccia famelica dello Stato. E qualcuno crede veramente che con la flemma di questa proposta arriveremo mai da qualche parte? E' opinione mia, oltre che del suddetto Tea Party, che Giannino dovrebbe piuttosto richiedere riforme più concrete: una riduzione generalizzata, rapida e significativa degli oneri fiscali, privilegiando innanzitutto lavoratori autonomi, dipendenti, piccole e medie imprese; una semplificazione delle pratiche di riscossione; una revisione in senso "umanitario" del controllo fiscale che, ai livelli attuali, ci rende di fatto sudditi di uno Stato di polizia tributaria (si veda in proposito il pamphlet Sudditi edito da IBL Libri); l'abolizione della figura giuridica deleteria e liberticida del sostituto d'imposta, contro cui si batte da tempo il grande Giorgio Fidenato; l'ottenimento, infine, della tanto agognata Flat Tax, una "tassa piatta" in grado di garantire a tutti la medesima aliquota, necessariamente inferiore alla minore aliquota attuale.

[continua]

Destra o sinistra?

di Paolo Amighetti

Dove si collocano i libertari? A destra o a sinistra dello schieramento politico? La domanda mette in imbarazzo l'intero microcosmo antistatalista. Senza pretendere di esaurire la questione, proviamo a diradare la nebbia. Cominciamo con una premessa, sperando di non annoiare: i termini «destra» e «sinistra», che distinguono le fazioni in seno ai parlamenti, fanno parte del vocabolario politico dell'età moderna; l'età del trionfo dello Stato. La fortuna di queste etichette risale agli anni della rivoluzione francese: lo storico Marchel Gauchet scrive che, nell'agosto del 1789, "coloro i quali tenevano alla religione e al re si erano messi alla destra del presidente [della commissione incaricata di discutere la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, n.d.A.], per sfuggire alle urla, ai discorsi e alle indecenze che avevano luogo nella parte opposta".[1]
Se a «destra» stavano i moderati, a «sinistra» sedevano i radicali. Nei decenni successivi, tale disposizione divenne comune a tutti i parlamenti, e si iniziò a parlare di «destra» e «sinistra» in tutti gli ambienti politici dell'occidente. Ma i contesti culturali e politici in cui attecchirono questi termini erano profondamente diversi, nel XVIII come nel XXI secolo. Un liberal americano trapiantato da questa parte dell'oceano non si troverebbe a suo agio in un partito «di sinistra» italiano, tedesco o francese; allo stesso modo, un sostenitore nostrano della cosiddetta «destra» (nazionale e corporativa) sarebbe duramente criticato dai conservatives americani, che pure siedono «a destra del presidente». Le parole, insomma, hanno finito per indicare tendenze politiche diverse a seconda della latitudine. Dovremmo dunque chiederci quale destra o quale sinistra, tra le tante, possa fare al caso dei libertari, sempre in cerca di fissa dimora nell'arco costituzionale. Alcuni guardano alla sinistra, che ospitava i progressisti favorevoli al mercato prima che venissero sfrattati dai socialisti; altri preferiscono la destra conservatrice americana, la cosiddetta Old Right alla quale aderì Murray Rothbard. Entrambi questi schieramenti, tuttavia, sono stati sconfitti dalla storia; gli ultimi due secoli hanno condannato le aspirazioni libertarie di qualunque segno e di qualsiasi Paese. Il Novecento, in particolare, segnato dall'avvento dei movimenti socialisti rivoluzionari, ha costretto chi socialista non era a scegliere il campo della reazione, nemica forse di Marx e del comunismo, ma anche (e particolarmente in Europa) delle libertà individuali, della Legge naturale, del mercato.
Qualcosa negli ultimi decenni è cambiato: in America, negli anni '70, è fiorito un movimento libertarian che Rothbard aiutò a crescere e irrobustirsi; la caduta del Muro di Berlino nel 1989 ha spazzato via il miraggio del socialismo reale; in molti Paesi la riscoperta dei maestri del liberalismo e la diffusione del libertarismo odierno hanno ampliato gli orizzonti del pensiero e del dibattito politico. Anche in Italia, a partire dalla fine degli anni '90, è sorto un dinamico movimento intellettuale e culturale capace di animare l'interesse verso gli economisti austriaci, il pensiero liberale classico e quello libertarian. Sempre più persone sono pronte a difendere la causa della libertà: ma dato che quello a cui assistiamo è quasi una resurrezione del liberalismo coerente, non possiamo aspettarci di essere i benvenuti né nella sinistra, socialista e statalista, né nella destra, conservatrice di un ordine liberticida. Il dibattito tra «destra» e «sinistra» riguarda non tanto la legittimità della redistribuzione di ricchezza, quanto le sue proporzioni e le sue modalità; non tanto la moralità del privilegio, quanto chi ne deve beneficiare e chi esserne danneggiato. Sembra proprio che nessuna delle due sponde presti orecchio alle nostre ragioni; e che per un libertario sia naturale chiamarsi al di fuori di questa contrapposizione.
Scrive infatti Rothbard: "Egli [il libertario] ritiene che la coscrizione sia una schiavitù di massa. E poiché la guerra comporta l'uccisione in massa di civili, il libertario la considera omicidio di massa e di conseguenza totalmente illegittima. Tutte queste prese di posizione sono oggi considerate «di sinistra» da un punto di vista ideologico. D'altra parte, però, dal momento che il libertario è anche contrario all'invasione dei diritti sulla proprietà privata, ciò significa che egli altrettanto intensamente si oppone all'interferenza del governo nei diritti di proprietà e nell'economia di libero mercato con l'imposizione di controlli, regolamentazioni, sussidi, proibizioni. [...] Per usare la terminologia moderna, la posizione libertaria per ciò che riguarda la proprietà e l'economia è considerata di «estrema destra» [secondo la tradizione politica americana, n.d.A]. Il libertario, tuttavia, non vede alcuna incoerenza nell'essere «di sinistra» in alcune problematiche e «di destra» in altre."[2]
Insomma: se nella «sinistra» si identificano i progressisti e nella «destra» i conservatori, il libertario può considerarsi progressista quando auspica la fine della coercizione statale e conservatore quando si batte contro nuove forme di dispotismo. Ma non può prendere partito né per la «destra» né per la «sinistra»: entrambe le fazioni fanno da puntello allo Stato, riconoscendone la legittimità. Sarebbe meglio rassegnarsi: per il libertario non c'è posto nell'arco costituzionale. Può limitarsi ad appoggiare oggi l'uno, domani l'altro schieramento, per motivi tattici, votando il «meno peggio», se esiste: ma non può riconoscersi a suo agio in nessuno dei due poli. Che, come tutti i poli di segno opposto, si attraggono.

Note
[1] La disposizione risale per l'esattezza alla convocazione dell'Assemblea Nazionale, di poco precedente alla ratifica della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino.
[2] Piccola antologia del pensiero liberale, pp. 83-84 (Società Libera, Milano, 1999)

   

Una lezione di libero mercato, e non solo: Cremona in età comunale (parte sesta)

di Camilla Bruneri e Tommaso Cabrini


Durante tutta la sua storia di Comune indipendente, Cremona fu sempre una città ghibellina, salda alleata dell’imperatore tedesco: ciò permise alla città di togliersi non poche soddisfazioni contro rivali storici come l’assedio di Crema del 1159 che venne conquistata e rasa al suolo[1]. Stessa sorte toccò alla potentissima Milano nel 1162, una volta distrutta la città, i milanesi vennero dispersi in quattro diverse località e, nel medesimo anno la conquista con successiva distruzione delle mura di Piacenza e Brescia. Successivamente vi fu una breve interruzione dell’alleanza con l’impero, quando la città si rivoltò contro Federico Barbarossa per il suo straripante potere in nord Italia, creando nel 1167 con Crema, Brescia, Bergamo, Mantova e i dispersi milanesi la “Lega cremonese”, che in seguito alla fusione con la “Lega veronese” diede vita alla “Lega lombarda”.
Tuttavia Cremona, forte dei legami con l’impero, svolse principalmente un ruolo di intermediazione tra la Lega e l’imperatore e non partecipò ai combattimenti della battaglia di Legnano.
Il sodalizio con l’imperatore proseguì anche con Federico II, con la vittoria ottenuta presso Cortenuova contro gli eserciti di Brescia, Bergamo e Milano e fino al definitivo declino imperiale in nord Italia partecipando alla sconfitta di Vittoria (presso Parma) nel 1248.
Nel 1250 Federico II morì, lasciando un importante vuoto di potere imperiale, che non avrà più la forza di intromettersi nelle faccende italiane.
Nel frattempo Cremona era retta da un’aristocrazia nobiliare di stampo ghibellino, fino ad allora egemone della politica cittadina, che aveva contenuto e respinto tutte le istanze dell’opposizione guelfa e con la sparizione del potere imperiale le cose cominciarono a cambiare.
Lo scontro tra le due fazioni, nobili ghibellini contro borghesi guelfi, si accese sempre più, con scontri spesso molto cruenti, arrivando nel 1256 alla secessione da parte dei guelfi. Venne così fondata una Città Nova, con tanto di piazza centrale con ai due lati opposti il palazzo comunale e la principale chiesa cittadina (ricalcando esattamente lo schema della piazza centrale della città “vecchia”) . Ciò che suscita senz’altro interesse è il luogo della fondazione: appena al di fuori delle mura, tant’è che i due palazzi comunali distano tra loro meno di ottocento metri. Di fatto quindi si veniva creando all'interno della stessa città, la compresenza di due governi separati e rivali che durò fino al ‘300. Il centro di questa città nova, tutt’ora esistente,è composto dal palazzo Cittanova (la sede del comune) e dalla chiesa di s’Agata (di cui rimane solo l’originale campanile).



[1] Durante l’assedio i cremonesi catturarono nelle campagne diversi cittadini cremaschi, che, ancora vivi, furono appesi alle torri d’assedio, costringendo i difensori della città ad uccidere i loro stessi concittadini per poter colpire le torri nemiche. Ciò provocò un’accesa rivalità tutt’ora mai sopita.

Una lezione di libero mercato, e non solo: Cremona in età comunale (parte quinta)

di Camilla Bruneri e Tommaso Cabrini

Ma abbiamo parlato anche di sentimenti indipendentisti, e contemporaneo di Tucenghi troviamo anche un altro personaggio del medioevo cremonese, la cui vicenda, ammantata da mistero, dimostra che anche Cremona non era da meno sul fronte autonomista: stiamo parlando di Giovanni Baldesio. Della sua vita si sa poco o nulla, tant’è che  molti storici lo ritengono niente più di una leggenda.
La sua storia si svolge nella seconda metà del XI secolo, a quei tempi l’imperatore tedesco Enrico IV e il Papa Gregorio VII erano in aperto conflitto riguardo a chi appartenesse il diritto di nominare i vescovi-conti e la disputa portò l’imperatore a dichiarare illegittimo il Papa, il quale rispose scomunicandolo.
Approfittando del clima di incertezza Cremona smise di pagare il tributo annuale all’imperatore, che consisteva nella consegna di una palla d’oro del peso compreso tra i due e i tre chilogrammi.
Nel frattempo la tensione tra papato ed impero crebbe al punto da sfociare in un intervento militare: nel 1081, infatti Enrico IV discese in Italia con il suo esercito determinato a risolvere la questione delle nomine, a rifarsi dell’umiliazione subita a Canossa e a rimettere in riga i riottosi Comuni del nord. Giunto a Cremona, ormai in arretrato con il pagamento di tre palle d’oro, la cinse d’assedio e per evitare un sanguinoso attacco si giunse ad un accordo con l’imperatore: Giovanni Baldesio, gonfaloniere maggiore della città si sarebbe scontrato in duello con il figlio dell’imperatore, il futuro Enrico V.
Secondo la leggenda Baldesio, in uno scontro avvenuto davanti alle mura della città, riuscì a disarcionare l’erede imperiale liberando Cremona dal tributo, un evento così importante che pochi anni dopo lo stemma cittadino venne cambiato: nella metà sinistra mantenne le bande orizzontali con i colori della città (bianco e rosso), ma nella metà destra venne aggiunto, in campo blu, un braccio che regge una palla d’oro con la scritta in lingua tardo-latina “fortitudo mea in brachio”, la mia forza sta nel braccio.
La storia di Giovanni Baldesio, per la sua impresa soprannominato Zanén de la Bàla (Giovanni della Palla), si conclude con il matrimonio con la ricca e bella Berta, a cui fu donata l’ultima palla d’oro prodotta dalla città.
Proseguì invece la storia di Enrico IV, che sconfitto il Papa Gregorio VII nominò l’antipapa Clemente III e rimase a Roma fino al 1084, quando fu sconfitto dai normanni.
Nel 1093 l’imperatore tornò in Italia deciso ad affrontare il nuovo Papa Urbano II, con cui i rapporti non furono migliori di quelli avuti con Gregorio VII, ma ad attenderlo trovò la lega dei comuni di Cremona, Lodi, Milano e Piacenza. Il conflitto si risolse con il giuramento di obbedienza da parte di Enrico IV al Papa, il quale riconoscente donò l’isola Fulcheria (cioè l’area del cremasco, che al tempo costituiva realmente un’isola al centro del lago Gerundo) a Cremona. Tale donazione le permise di costituirsi libero Comune, con un proprio carroccio, autonoma dal potere imperiale (per questo sopra lo stemma cittadino venne aggiunta una corona). Grazie all’indipendenza e alla libertà ottenuta dalla città grazie a Giovanni Baldesio, Cremona diventò una delle più ricche, potenti e popolose città dell’Italia Settentrionale.
[continua]

Una lezione di libero mercato, e non solo: Cremona in età comunale (parte quarta)

di Camilla Bruneri e Tommaso Cabrini

Omobono Tucenghi nacque nella prima meta del XII secolo in una Cremona al tempo fiorente per la sua posizione privilegiata al centro della Pianura Padana, importante porto fluviale sul Po e rilevante crocevia stradale per la vicinanza di uno dei principali guadi del fiume.
La sua famiglia apparteneva al “popolo”, termine che nelle città dell’Italia settentrionale dell’epoca non indicava tanto gli strati sociali inferiori quanto la borghesia: infatti, il padre possedeva una casa in città e terre e vigneti nelle campagne circostanti. Il giovane Omobono ereditò i beni paterni e proseguì nella sua professione: artigiano nel settore della confezione di abiti e, allo stesso tempo, mercante di stoffe e lana, secondo alcune fonti praticò anche il commercio su lunghe distanze e l’attività di cambio.
Fu grazie alla sua grande abilità negli affari  che Omobono divenne una figura di spicco della città, famoso anche per la sua dedizione religiosa e, soprattutto, per la sua generosità:  secondo la sua concezione, infatti, la carità verso i poveri era un preciso dovere morale al quale non poteva astenersi, utilizzando sempre il denaro guadagnato dalla sua profittevole attività per opere caritatevoli e l’aiuto agli indigenti.
La sua generosità era tale che si riteneva che la sua borsa, di fronte ai poveri, fosse sempre piena per intercessione divina e, ancora oggi (ad oltre ottocento anni di distanza) a Cremona rimane il detto “non ho mica la borsa di sant’Omobono!” per respingere richieste eccessive di denaro.
Il 13 novembre del 1197,  morì improvvisamente, accasciandosi durante la Messa.
Subito dopo la sua morte si diffuse la fama di santità e cominciarono i pellegrinaggi alla sua tomba, in proposito, il vescovo Siccardo e una rappresentanza cittadina, si rivolsero a papa Innocenzo III.
La canonizzazione arrivò il 13 gennaio 1199, un anno e due mesi dopo la morte, una velocità sorprendente  e ciò rappresentò un grande stravolgimento per l’epoca, soprattutto per la velocità con cui avvenne: Omobono, infatti, era un laico, un borghese, e non da ultimo un mercante (attività fino ad allora considerata peccaminosa) il primo santo medioevale a non far parte né del clero né della nobiltà.
Il mercante infatti comprava la merce ad un prezzo per rivenderla (senza lavorarla) ad uno più alto, attività che per i dotti del tempo non poteva che realizzarsi truffando il fornitore, il cliente o entrambi. Attraverso la canonizzazione, la figura del mercante e imprenditore venne così sdoganata. La Chiesa riconobbe incontrovertibilmente e con tanto di sigillo papale, non solo la legittimità di tale attività ma addirittura la sua bontà.
Dal 1643 sant’Omobono è il patrono di Cremona dove riposa, in una teca di vetro, nella cripta della cattedrale con la sua borsa legata al fianco.
Durante le nostre ricerche sull’argomento abbiano inoltre  curiosamente scoperto che la figura di Omobono è nota anche oltre oceano: negli Stati Uniti, infatti, statuette di sant’Omobono sono vendute come gadget da scrivania, dove come santo patrono dei businessmen, è divenuto una figura rilevante nella cultura d’impresa.
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Una lezione di libero mercato, e non solo: Cremona in età comunale (parte terza)

di Camilla Bruneri e Tommaso Cabrini

I Comuni della Bassa Lombardia e dell’Emilia furono precursori delle liberalizzazioni e delle leggi antimonopolio, ma non solo: a questa ‘prima fase’ fecero seguire la cosiddetta fase B’, quella dello sviluppo. A Cremona, ad esempio nel XIII secolo c’erano norme severissime contro i mercanti che facevano cartello o monopolio, ma nello stesso tempo erano previste esenzioni dalle tasse e agevolazioni tributarie. A Bologna addirittura uno statuto comunale colpiva la corporazione dei farmacisti intimando ai ‘capi’di non fissare prezzi prestabiliti «né di proibire ad alcuno di detta società di accostarsi ai malati ed anche ai sani ai fini di cura». La ‘fase B’ bolognese fu quasi spettacolare, per attirare i mercanti di tessuti in città la municipalità assicurava: due telai gratis, un muto di 50 lire senza interessi, esenzione dalle tasse per 15 anni, e, circostanza da sottolineare, concedeva immediatamente la cittadinanza bolognese. Ma anche Cremona si difese bene.

Tra il XII e il XIII secolo la città fu ricca e potente, dal 1155 operò addirittura una zecca che batteva moneta propria, i mercanti cremonesi partirono alla conquista dei mercati di mezzo mondo, accrescendo il benessere della città. Alle corporazioni venne chiesto di fissare per iscritto i loro statuti, vennero  abbassate le tasse, in alcuni casi addirittura abolite. Ma non fu solo ‘protezionismo’: i dirigenti cremonesi sapevano bene che l’economia di mercato è libertà di iniziativa, di movimento, di concorrenza (sempre nelle regole), per cui i benefici vennero estesi anche ai mercanti che arrivavano da fuori. Venne stipulato un trattato con i ‘mercantati’ francesi, a quelli di Genova venne assicurato un rimborso per i crediti non incassati e vennero stipulati trattati con Pavia e Piacenza. Con Venezia si aprì un tavolo che portò ad un accordo per rendere più sicure le strade verso est. Ma non solo, con la signoria dei Visconti i mercanti fiorentini vennero esentati dal pagare i pedaggi se per raggiungere la Francia passavano da Cremona, Pizzighettone o Lodi. Il Po ritornò ad essere un asse viario fondamentale: la stazione di transito non era più Piacenza, ma Cremona, al suo porto arrivavano mercanzie da tutta Italia. E per favorire le merci di lusso vennero previste esenzioni doganali: a Cremona e Milano divennero di moda le merci fiorentine. Una politica economica che mantenne Cremona a buoni livelli anche nel XIV secolo, un periodo di crisi, durante il quale la città non era più la potenza imperiale del secolo precedente, ma con queste misure continuò ad essere la Capitale del Po, mantenendo un tenore economico di buon livello.

Particolare attenzione merita il tema della fiera cittadina, che faceva convergere sulla città articoli meno usuali, introvabili sul normale mercato settimanale: l'afflusso di merci e di operatori commerciali provenienti da luoghi lontani favoriva scambi non solo economici ma anche umani fra genti diverse e rendeva in quel momento la città vero centro di attrazione per gli abitanti abituali e per quelli che risiedevano nell'area circostante. I mercanti non erano vili affaristi votati esclusivamente alla propria ricchezza, erano forse il modello di cittadino capace di includere una prospettiva veramente filantropica nella propria vita, preoccupandosi allo stesso tempo della gestione del proprio patrimonio. Anche in questo caso Cremona ci viene in aiuto con una delle sue storie: quella del patrono cittadino Omobono Tucenghi.
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