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sabato 9 marzo 2013

The Liberty Bell: recessione o secessione

di Paolo Amighetti
 
L'inverno volge al termine, la natura comincia a sciogliersi dalla morsa del freddo, gli alberi presto torneranno a fiorire. Ma sul versante politico imperversa ancora la bufera. Il febbraio decisivo delle elezioni ha tradito ogni aspettativa: tanto per cominciare le consultazioni non hanno decretato un risultato definito e definitivo, limitandosi a frazionare il voto in tre blocchi, di cui quello più sorridente è oggi il Movimento 5 Stelle. Non tanto per una questione di numeri, quanto perché ha rosicchiato voti di qua e di là, ed è l'unica forza politica in grado di dettare legge a tutte le altre. Dietro al duo Grillo-Casaleggio rumoreggia una folla di fedeli decisi a rivoluzionare la politica italiana. Seguono come pecore i loro pastori: e se Beppe dichiara che non tollererà opposizioni in Parlamento, e che spera che i cittadini diventino lo Stato, è lecito preoccuparsi. Il successo dei cinquestelle è fragoroso quanto il flop di FARE. Il movimento è stato azzoppato prima dalle imperdonabili gaffes del suo eccentrico leader, e poi dall'indifferenza dell'elettorato, certamente influenzato dalle lauree (inesistenti) e dal master (immaginario) esibiti da Oscar Giannino. Costretto dalla forza delle cose alle dimissioni, il giornalista torinese ha abbandonato la sua nave in gran tempesta, cosicché ora FARE sembra sull'orlo dello squagliamento.

lunedì 25 febbraio 2013

Cosa ci insegna Oscar Giannino


di Tommaso Cabrini

Non penso ci sia bisogno di una introduzione, anche per merito di una iperattiva stampa “nemica”, i  suoi titoli accademici sono sulla bocca di tutti: Dott. Oscar e Mr Giannino.
Ma un evento così forte ed inaspettato cosa ci trasmette? Innanzitutto le mie emozioni iniziali sono state di stupore ed un po’ di rabbia. Ma raffreddandosi un po’ la situazione ha prevalso la mente e le emozioni sono cambiate. E’ sopravanzata la compassione: Giannino proviene da una famiglia piuttosto povera, ma nonostante questo ha l’occasione di frequentare l’università, in una sorta di riscatto sociale. Poi intervengono i casi della vita e il nostro Oscar, a quanto pare, non giunge alla laurea. Tuttavia avverte chiaramente dentro di sé un senso di inferiorità nei confronti di chi il “pezzo di carta” ce l’ha. Probabilmente più volte ha sentito sbeffeggiare le sue opinioni (magari migliori) solo perché contrastate da qualcuno che “è laureato” o “ ha fatto il master”. E così, il titolo, decide di inventarselo. A guardare in fondo alla questione non c’è nulla di estremamente grave, non ha neanche mai esercitato professioni che richiedessero il titolo di studio. Chi, poi, non ha mai detto qualche balla (magari più piccola ma comunque altrettanto falsa) per dare forza alle opinioni espresse? Colui che non ha mai peccato scagli la pietra, vien da dire.
Ma questa triste vicenda umana, molto umana, in fondo cosa ci insegna?

domenica 24 febbraio 2013

Ansie (?) elettorali

di Paolo Amighetti

«Rinnovare i due rami del Parlamento» non è mai stato così difficile. Troppe liste troppo simili, troppe sigle e nomi fastidiosi (come si fa a dire: «ho votato Ingroia?» Il suono, Ingroia, è sgradevolissimo). Schede di dimensioni strabilianti, procedure intricate tra voti disgiunti, Politiche, Camera e Senato, Regionali. Un macello. Nemmeno questo, però, mortifica l'entusiasmo dell'elettore. Il buon cittadino va alle urne anche sotto la neve e la pioggia, perché è risaputo: votare è «un diritto e un dovere civico». Noi di The Road to Liberty non siamo buoni cittadini, non pensiamo affatto che votare sia un «dovere», ma questo non significa che nel nostro gruppo ci sia la dittatura: vige anzi la piena libertà di coscienza e di incoscienza. Pertanto, qualcuno di noi voterà, qualcuno l'ha già fatto, qualcuno eviterà. Come blog ci siamo schierati: stiamo dalla parte di Marco Bassani e quindi, indirettamente, di FARE per Fermare il Declino. Ma in cabina elettorale ognun per sé e Dio (che ci vede!) per tutti. In queste ore in cui la febbre elettorale si coniuga alla smania calcistica, attendiamo il responso delle urne senza troppo entusiasmo. Andrà male, perché «bene» non può andare. Speriamo almeno di avere qualcosa di cui rallegrarci mercoledì. Incrociamo le dita...

mercoledì 20 febbraio 2013

La stampa di destra affonda Giannino

di Paolo Amighetti

L'abbiamo detto e ripetuto: sui canali Mediaset e sui giornali di Berlusconi (o filoberlusconiani) Giannino non ha spazio. Troppo pericoloso, troppo popolare, troppo fastidioso per un Pdl ancora in rimonta sul Pd a pochi giorni dalle elezioni. Ieri, la sorpresa: Libero e Il Giornale hanno dedicato la prima pagina al leader di FARE. No, Feltri e Belpietro non voteranno la «lista con la freccia», e no, Berlusconi non si è disfatto del suo foglio. Tenta di disfarsi di Giannino, gettandolo alle luci della ribalta sperando che ne venga accecato. Il pericolo esiste, perché di Oscar si parla solo come del bugiardo che millanta master mai conseguiti. Su Libero e Il Giornale campeggiavano ieri titoli frizzanti, a caratteri cubitali: «Il declino di Giannino», «L'Oscar delle balle». Nessun altro quotidiano ha dato tanta importanza all'addio di Zingales a FARE, né alla stupidaggine (perché di questo si tratta) commessa da Giannino nel vantarsi di un titolo accademico che non ha. Non è certo un caso che a trasformare una scemenza in uno spettacolo nazionale siano i giornali su cui si regge il Cavaliere, che, stando alle sue ultime dichiarazioni, ha pure «superato la sinistra». Il gagliardo campione del centrodestra, ormai in pole position nella corsa a Palazzo Chigi, gongola. Perché non segnalare e sottolineare lo scivolone del leader di FARE, relegando in secondo piano tutto il resto? Perché non evidenziare l'errore di Giannino fino a trasformarlo in una prova di piena disonestà, di completa inaffidabilità?

martedì 19 febbraio 2013

Giullari e menestrelli alla corte di Giannino

di Damiano Mondini

La notizia ha fatto presto il giro della rete, e alle 18.30 se ne parlava perfino a Radio 24, da Cruciani: Luigi Zingales, professore di Finanza alla University of Chicago Booth e promotore del movimento “FARE per Fermare il declino”, ha rassegnato le sue dimissioni dalla stessa formazione politica che aveva contribuito a creare nel luglio del 2012. La motivazione è inequivocabile e shoccante: il dissenso sarebbe nato dalla falsificazione, operata consapevolmente dal leader del movimento Oscar Giannino, del proprio curriculum vitae; Giannino avrebbe fatto figurare un master presso la Chicago Booth che in realtà non ha mai conseguito. Non solo avrebbe sparso sulla Rete tale credenziale falsa, ma l’avrebbe finanche ripetuta in un video-intervista rilasciato a Repubblica.it. Millantare un titolo di studio, soprattutto quando ci si erge a paladini della trasparenza e della correttezza, è un’azione grave; è ancor più grave rifiutarsi di rettificare pubblicamente, e perciò – sostiene Zingales – una presa di distanza da Giannino e dal suo movimento si rende “a malincuore” necessaria.

sabato 16 febbraio 2013

Giannino, tormento del Cavaliere

di Paolo Amighetti
Chi è, oggi, il nemico numero uno di Silvio Berlusconi, l'uomo che più irrita il Cavaliere? Non è Bersani. L'affabile emiliano recita il suo copione di leader del centrosinistra, dal quale non ci si aspettano baci né carezze. Sarebbe strano il contrario. Non è nemmeno Monti. Berlusconi ha ribadito un giorno sì e l'altro pure che il centrodestra ha sostenuto il professore ma ha preso un grosso abbaglio, al quale rimedierà in caso di vittoria il 24-25 febbraio: la questione, tutto sommato, è morta lì. Non è Vendola, né Ingroia, né Grillo. I primi due sono pesci piccoli, il comico genovese è più probabile tolga voti alla sinistra che agli aficionados di Silvio. Chi manda in bestia l'ottimista ex-premier è Oscar Giannino, capo di un partito modesto con modeste aspirazioni e poco seguito. Perché mai? Per vari motivi. Tanto per cominciare, gli uomini si somigliano poco. Berlusconi è irriverente, colorito e volgare come Giannino è ironico, sottile e (di solito) cortese. L'uno vende prodotti scadenti che piacciono al grande pubblico, l'altro parla quasi «che non si capisce» a furia di lanciarsi in analisi squisitamente economiche. L'uno cerca di sembrare giovane e giovanile, l'altro sembra sbucato da un salotto di fine Ottocento. Due figure incompatibili, condannate all'antipatia da quando Giannino si è deciso a «scendere in campo» per sparare a zero sugli ultimi diciotto anni di delusioni berlusconiane.

giovedì 7 febbraio 2013

Nessuno tocchi Giannino!

di Damiano Mondini

Accettare e confessare i propri limiti non è affatto un difetto, anzi: è un segno di modestia e di prezioso senso d’autocritica. Allo stesso modo – e con la medesima umiltà – da questo blog non sono mai mancate critiche a quelli che venivano percepiti, a ragione o a torto, difetti formali o sostanziali del partito di Oscar Giannino, “FARE per Fermare il Declino”. Nondimeno, vi è un attacco a questa formazione politica che proprio non riusciamo a digerire, ed è quello rivolto dai pasdaran irriducibili del Popolo della Libertà e del Cavalier Silvio Berlusconi. Mi riferisco in modo precipuo all’odierno editoriale del direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti: verrebbe da dire, chi è senza peccato scagli la prima pietra. Un uomo peraltro difeso dallo stesso Giannino quando, pochi mesi orsono, si trovò faccia a faccia con i Pubblici Ministeri e con le porte del carcere. Ma più che l’ingratitudine – che in un berlusconiano forse non dovrebbe nemmeno stupirci -, ci colpiscono la disonestà intellettuale ed il tenore offensivo di questo pezzo;  di fronte a quest’ultimo sentiamo – o almeno sento io personalmente – di dover difendere a spada tratta il fondatore dell’unica formazione davvero liberale che troveremo sulle schede elettorali. E parlo di FARE, non del PDL o di Fratelli d’Italia.

martedì 5 febbraio 2013

Intervista esclusiva a Giacomo Zucco

di Luigi Angotzi

Giacomo Zucco, ventinovenne portavoce del Tea Party Italia, ha messo alle corde Mario Monti durante la trasmissione Leader: il video già spopola sul web. L'ex premier è sfuggito goffamente alla sua domanda: «perché ha alzato tasse e spesa pubblica quando sapeva di dover fare l'opposto?». All'indomani di questo «Ko tecnico» in diretta televisiva, la redazione ha fatto qualche domanda a Giacomo.

Giacomo, sei soddisfatto di quanto ha detto il Prof. Monti? Secondo te gli ascoltatori avrebbero gradito una risposta più corposa?

Non credo che una risposta più "corposa" sarebbe stata molto più soddisfacente: ho il sospetto che Monti non abbia risposto nel merito perché, semplicemente, non poteva rispondere nel merito. Però sinceramente mi sarei aspettato almeno un elaborato tentativo politichese di giustificare il suo operato, e non quella risposta da bambino con l'orgoglio ferito. Il professore ha voluto provare a tutti i costi una cosa per lui molto nuova: l'irriverenza, che finora gli è sempre stata risparmiata tanto dai suoi studenti in Bocconi quanto dai giornalisti a Palazzo Chigi. Ma quando ha avuto quello che chiedeva, ha evidentemente scoperto di non gradirlo particolarmente.

lunedì 4 febbraio 2013

[SOSTIENI BASSANI] Cosa Jefferson può insegnare all'Italia

di Damiano Mondini

Si dice spesso che i grandi maestri del passato continuano a dare lezioni al presente, oltre  che ad insegnarci come immaginare il futuro. Sovente si tratta di esercizi retorici da ginnasio o da liceo, come quando si vagheggia dell’attualità dell’utopia platonica o della preveggenza di Karl Marx nei riguardi dell’inevitabile crollo del capitalismo. Ciò nondimeno, per alcuni pensatori questa massima risulta particolarmente calzante: Thomas Jefferson (1743-1826) è uno di questi; si potrebbe anzi azzardare che, per comprendere il panorama politico contemporaneo, e nella fattispecie quello italiano,  il virginiano sia un convitato imprescindibile. E’ questa la tesi di Luigi Marco Bassani, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Milano e candidato consigliere regionale in Lombardia nelle liste di FARE, studioso che a questa figura originale ha dedicato un’ampia bibliografia: in particolare, sia consentito citare Contro lo Stato nazionale. Federalismo e democrazia in Thomas Jefferson (Fenicottero, 1995), Dalla Rivoluzione alla guerra civile. Federalismo e Stato moderno in America 1776-1865 (Rubbettino, 2009) e Liberty, State and Union. The Political Theory of Thomas Jefferson (Mercer University Press, 2012).

venerdì 1 febbraio 2013

The Liberty Bell: che vinca il peggiore! O no?

di Paolo Amighetti

Questi sono i giorni «della merla». I più freddi dell'anno, secondo la tradizione e il termometro: raro caso in cui la scienza più moderna e il vecchio bagaglio delle credenze popolari vanno a braccetto. Purtroppo, non c'è che la politica a scaldare queste mattine invernali: le elezioni sono vicinissime, manca ormai pochissimo al 24-25 febbraio. Una due giorni rovente alla quale ci avviciniamo con un sacco di indifferenza ma anche, udite udite, con un pizzico di speranza. Non ci sono in ballo soltanto le Politiche, stavolta: in Lombardia si vota pure per le Regionali. Dunque, la posta è un po' più alta del solito. Digerito l'amaro boccone della bocciatura di Forza Evasori, speriamo che questa campagna elettorale scialba e monotona (l'ultima veramente avvincente, dopotutto, fu nel 1948: «Nel segreto della cabina elettorale, Dio ti vede, e Stalin no!») si avvii alla conclusione, e che vinca il peggiore. Ce ne faremo una ragione, come sempre. Ma stavolta forse, ed ecco la ragione della scintilla d'entusiasmo, dopotutto c'è un «migliore», uno per la cui vittoria si possono incrociare le dita: si chiama Marco Bassani, è una delle punte di diamante del libertarismo italiano e si candida per le regionali in Lombardia nelle liste del movimento di Giannino, Fare per Fermare il Declino. Vi diremo perché abbiamo intenzione di sostenerlo, e vi inviteremo a farlo a vostra volta: in alternativa vi proporremo una sana astensione, per chi non volesse diventare ingranaggio della macchina democratica verso la quale, sia chiaro, siamo sempre diffidenti. Sullo sfondo, campeggiano le rivoluzioni regionaliste di cui vi parliamo ogni mese: quella scozzese, quella catalana e quella veneta. Votare Bassani vuol dire sostenere e far scoppiare, al più presto, quella lombarda: per questo il 24 e il 25 di questo mese potremmo pure evitare di turarci il naso.

martedì 1 gennaio 2013

Bassani candidato in Lombardia per FiD

Apprendiamo e rilanciamo la notizia della candidatura alle regionali lombarde, nelle liste di FARE per Fermare il Declino, di Luigi Marco Bassani. Professore di Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli Studi di Milano, Bassani (Chicago 1963) è un attento studioso del pensiero politico americano fra la Rivoluzione e la guerra civile, della teoria del federalismo, del sindacalismo rivoluzionario e del libertarismo contemporaneo. Vanta al suo attivo la pubblicazione di diverse opere, tra cui Il pensiero politico di Thomas Jefferson (2002) e Dalla Rivoluzione alla guerra civile. Federalismo e Stato Moderno in America, 1776-1865 (2009); ha tradotto e curato inoltre diverse pietre angolari del pensiero libertario, tra cui Il nostro Nemico, lo Stato (1995) di Albert Jay Nock e L’etica della libertà (1995) di Murray Newton Rothbard. La redazione fa i più sentiti auguri a questo faro della causa della Libertà, oltre a ribadirgli la propria stima e il proprio sostegno.

Fonte:
http://www.milanotoday.it/politica/elezioni/regionali-lombardia-2013/lista-fermare-il-declino-marco-bassani.html

lunedì 31 dicembre 2012

Passiamo l'ultimo con Mises

di Damiano Mondini

L'elaborazione teorica delle dottrine e dei programmi deve essere rigorosa, coerente ed esente da contraddizioni. Se però non si riesce a convincere la maggioranza a realizzare pienamente il proprio programma, bisogna accontentarsi di ciò che si può ottenere nelle condizioni oggettive in cui ci si muove.Ho sempre criticato la middle-of-the-road-policy di tutte le varianti dell’interventismo, e credo di aver mostrato che esse finiscono inevitabilmente per sfociare nel socialismo vero e proprio. Ma questo non mi ha impedito di capire benissimo che i rapporti di potere politici possono costringere anche un convinto e coerente difensore del liberalismo a venire a patti temporaneamente con certe misure interventistiche (per esempio, i dazi doganali). Di regola bisogna accontentarsi di scegliere il male minore
Ludwig von Mises, lettera ad Alfred Müller-Armarck, 14 novembre 1961

domenica 2 settembre 2012

Ripartire da Giannino? (parte terza)

di Damiano Mondini


7) Far funzionare la giustizia. Sostanzialmente si tratta di renderla più rapida, efficiente e competitiva, oltre che indipendente dai gruppi di potere e dalla longa manu della politica. Ovviamente nulla da obiettare, anche se da un senior fellow dell’Istituto Bruno Leoni (che anche dal nome si capisce essere particolarmente sensibile al tema della giustizia) mi sarei aspettato una tematizzazione esplicita di riforme più marcatamente liberali, come la promozione in sede civile, penale e amministrativa di pratiche di arbitrato. Da anarco-capitalista dovrei poi forse azzardarmi a parlare di denazionalizzazione/privatizzazione delle attività di law and order, ma un rassegnato realismo mi impone di soprassedere.

8) Liberare le potenzialità di crescita, lavoro e creatività dei giovani e delle donne. L’intento è chiaramente meritorio essendo la crescita, il lavoro e la creatività connotati essenziali di un’economia di mercato. L’importante è che la crescita non sia finanziata a suon di spesa pubblica, perché in tal caso darebbe luogo ad uno sviluppo soltanto fittizio di alcuni settori, rinvigorendo per giunta il parassitismo dilagante e avvantaggiando i soliti noti in grado di ingraziarsi qualche pubblico ufficiale ben disposto. Che poi i sussidi di disoccupazione servano ad incentivare l’occupazione mi pare un’evidente non sequitur, come pure sono dubbioso riguardo alle quote rosa e alle “quote giovani” coatte, quando al centro dell’attenzione dovrebbero esserci le competenze personali, il know how e una sana competizione volta all’efficienza e al miglioramento. Fa comunque piacere leggere di una ritrovata meritocrazia di cui abbiamo estremo bisogno, come pure del proposito di “facilitare la creazione di nuove imprese”, magari rimuovendo ostacoli all’offerta (leggi meno burocrazia, meno tasse, meno regolamentazione, meno oppressione sindacale, meno corporativismo): chissà che magari non tornino di moda la supply-side economics e la curva di Laffer.

9) Ridare alla scuola e all’università il ruolo, perso da tempo, di volani dell’emancipazione socio-economica delle nuove generazioni. Lo si dice esplicitamente: lo Stato non dovrà, in questi settori, spendere meno; dovrà spendere di più e meglio. Sappiamo dove porta la retorica della “razionalizzazione delle spese”: a tagli inconsistenti sul modello montiano della spending review e magari all’incremento di altre voci di spesa ritenute indispensabili da quella stessa intellighenzia intellettuale che se ne avvantaggia. Non vi è naturalmente nulla di sbagliato nell’introdurre nel sistema scolastico elementi di concorrenza fra istituti, meritocrazia per alunni e docenti e sostegno al merito; accolgo altresì con rinnovata gioia la proposta, che sostengo da tempo in prima linea e a cui sono particolarmente affezionato, di abolizione del valore legale del titolo di studio (lo dice anche il “progetto di libertà” del Tea Party: è l’unico modo per evitare che la scuola rimanga quel titolificio corrotto e inefficiente che è). L’incapacità cronica della macchina statale di gestire con efficienza e prontezza la scuola pare tuttavia ormai endemica (e non è colpa dei “tagli” della Gelmini, che erano solo riduzioni di previsioni di aumento di spesa, cosicché i soldi per la scuola venivano ogni anno incrementati): sarebbe dunque necessario auspicare forme di finanziamento e gestione privata della scuola, magari favorendo un legame più stretto col mondo dell’impresa; il settore andrebbe inoltre liberalizzato, evitando così a chi voglia servirsene sul mercato di pagare cifre astronomiche conseguenze dei mille balzelli imposti dallo Stato agli istituti privati, oltre che di una mancanza di vera concorrenza causata dall’iper-regolamentazione. In prima battuta non sarebbe poi così catastrofico adottare il sistema dei vouchers delineato da Milton Friedman e promuovere l’homeschooling, che sono peraltro da tempo battaglie sostenute con forza dell’Istituto Bruno Leoni.


10) Introdurre il vero federalismo con l’attribuzione di ruoli chiari e coerenti ai diversi livelli di governo. Il federalismo fiscale e amministrativo, nella formulazione datane dalla riforma del centrosinistra del titolo V e dalle successive integrazioni leghiste, ha dato ampie dimostrazioni del proprio vergognoso fallimento. Un tema caro ai libertari e a chi lotta per l’autodeterminazione è stato così vituperato e screditato dall’uso deleterio che ne hanno fatto le nostre beneamate élites politiche, che personalmente, divergendo dall’analisi del grande Gaetano Mosca, definirei una minoranza disorganizzata. Dubito di conseguenza che siano sufficienti la richiesta di maggior trasparenza, lo spauracchio della gogna e il premio ad una gestione oculata per risanarne le attuali numerosissime “linee di faglia”. Se nella logica concorrenziale del mercato l’apologo del bastone e della carota funziona (se lavori bene e ad un buon prezzo prosperi, altrimenti sei fuori gioco), esso ha molta meno presa nell’amministrazione pubblica, in cui i lavativi raramente vengono puniti (leggi “licenziati in tronco senza tutele ex articolo 18”) e i meritevoli continuano con ogni probabilità a far la fame nel regno di “Mediocristan”, per citare Il cigno nero di Nassim Taleb. L’autentico federalismo non può dunque prescindere da una più ampia riforma dell’apparato pubblico, da una semplificazione burocratica e da una preventiva liberalizzazione di quegli svariati servizi che il mercato saprebbe gestire molto meglio e a prezzi concorrenziali. Solo così sarà auspicabile una progressiva decentralizzazione delle funzione amministrative e, perché no, altresì di quelle legislative, esecutive e giudiziarie. Va inoltre ribadito che l’autonomia di spesa degli enti locali non va intesa come un’autorizzazione ad indirizzare in senso vertiginosamente incrementale le uscite, a danno dei cittadini strozzati dalle gabelle e mazziati a suon di debito; è poi necessario che eventuali inefficienze di singoli enti territoriali siano tamponate dagli stessi in prima persona, magari con dismissioni patrimoniali e tagli di spesa, e non spalmate sull’intero Paese grazie a tempestivi sussidi e salvataggi di Stato. A tal ultimo proposito, taccio per amor di patria (in senso letterale) della “questione meridionale” e di come essa andrebbe realmente risolta: qui habet aures audiendi, audiat.
Concludendo, è possibile affermare che in queste dieci proposte c’è sì molto di positivo e auspicabile, ma altrettanto di negativo ed esecrabile. Il marcato opportunismo non è tuttavia confermato soltanto da ciò che c’è nel manifesto, bensì soprattutto da ciò che manca. Non vi è infatti traccia di quella che un economista italiano di Scuola Austriaca che stimo molto, Francesco Carbone, ha definito come la questione fondamentale da dirimere in un’ottica libertaria, vale a dire la politica monetaria. Come del resto potremmo definire autenticamente liberale/liberista un’economia basata sulla discrezionalità monetaria e la gestione arbitraria dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali (FED in America e BCE in Europa)? L’espansionismo monetario che (ribadiamolo) sta all’origine dell’attuale crisi economica, così come del crack del 1929, non è una questione marginale: è il nocciolo fondamentale del problema, o quanto meno ne è parte integrante. Ignorarla per spirito opportunistico o – non voglio pensarlo - per disonestà intellettuale è probabilmente il peggior errore compiuto da Giannino e da quanti intorno a lui si autoproclamano difensori del libero mercato. Fintanto che non si mette in discussione la sovranità monetaria dei governi e delle banche centrali non si può in alcun modo definirsi tali: o meglio, si può, come fanno gli economisti della Scuola di Chicago, ma con risultati deleteri che rischiano di affossare invece che innalzare i valori di un autentico liberalismo.

P.S.= Leggo in questi giorni con rammarico che Oscar Giannino avrebbe in animo di privatizzare alcune grande aziende mantenendo la golden share (ovvero la “partecipazione d’oro” dello Stato) per “evidenti motivi di utilità nazionale strategica”. Questo è più che essere oppurtunisti: è essere ipocriti.

Ripartire da Giannino? (parte seconda)

di Damiano Mondini

4) Liberalizzare rapidamente i settori ancora non completamente concorrenziali. Nella fattispecie si tratta di privatizzare/liberalizzare servizi e società pubbliche (prima fra tutte la RAI, con annessa abolizione del canone per la gioia dei Tea Party), rendere la concorrenza il fulcro della nostra economia e contrastare monopoli e privilegi d’ogni sorta. E’ questa una tappa ineludibile di ogni road-map che intenda seriamente smantellare il corportativismo di Stato, estirpando alla radice quelle logiche clientelari e parassitarie che funestano il sistema economico italiano. Suggerirei in ogni caso ai commandos di Giannino di ribadire con forza la fondamentale distinzione fra monopoli/oligopoli legali, ossia gestiti, costituiti o comunque protetti dai pubblici poteri, e monopoli/oligopoli di fatto, conseguenze spesso inevitabili, ma per nulla tragiche e quanto mai transeunte, del continuo processo evolutivo che caratterizza il libero mercato; non vorrei insomma che nel limpido liberalismo di questa proposta si insinuassero capziosi costrutti economici di matrice neoclassica, che con l’ossessione walrasiana per l’equilibrio di mercato tanto male hanno fatto all’autentica concorrenza, e che stanno alla base della micidiale moderna legislazione antitrust (si vedano a questo proposito gli studi di Alberto Mingardi ed Enrico Colombatto pubblicati da IBL Libri)

5) Sostenere i livelli di reddito di chi momentaneamente perde il lavoro anziché tutelare il posto di lavoro esistente o le imprese inefficienti. Nella specifica si fa esplicitamente riferimento ad un “sussidio di disoccupazione” che dovrebbe essere dispensato – presumo – dallo Stato, e finanziato con gioia – continuo a presumere – dai contribuenti. Sia chiaro: passare dall’attuale ipertrofica difesa del posto di lavoro e delle imprese decotte, con tutta la cancrena che questa comporta, ad una più elastica tutela del singolo lavoratore rappresenta certamente un passo avanti; e in questo senso è confortante sentire che il ministro del Welfare, Elsa Fornero, è di questo parere e può affermare senza tema che “il lavoro non è un diritto”. Non posso comunque esimermi dall’esprimere pesanti dubbi riguardo all’efficacia dell’introduzione di un salario minimo fornito con la forza della coercizione (leggi “imposizione fiscale”) dalla parte produttiva del paese a quella, vuoi anche incolpevolmente, improduttiva. Più sensato sarebbe incentivare e defiscalizzare pratiche di assicurazione volontaria, carità privata, mutuo soccorso e solidarismo spontaneo sul modello no-profit. Debellare i privilegi sindacali e decurtare pesantemente la tassazione su lavoro e impresa sarebbe altresì un modo per favorire l’occupazione, molto più efficace dell’incentivo pubblico a rimanere disoccupati. In caso contrario le retoriche dello welfarismo redistributivo continueranno a fornire un valido argomento per le strumentalizzazioni di marca statalista, e dubito che tale sia l’intento dei firmatari dell’iniziativa.

6) Adottare immediatamente una legislazione organica sul conflitto d’interesse. Noto con sorpresa la comparsa, per la prima volta nel manifesto, dell’avverbio “immediatamente”, e apprendo con vivo stupore che esso non è seguito da espressioni quali “decurtare la pressione fiscale”, “ridurre la spesa pubblica” o “liberalizzare i servizi” (quest’ultima operazione è da svolgersi soltanto “rapidamente”). Esso viene invece utilizzato per la prima ed unica volta per auspicare una legislazione sul conflitto d’interesse che, al di là della sua intrinseca utilità, pare di meno cogente necessità rispetto alle riforme appena citate. Dal “liberista” Giannino mi sarei aspettato una maggiore solerzia nei riguardi del ridimensionamento dello Stato e nella promozione del mercato. Questo punto mi pare un tentativo, decisamente goffo, di ingraziarsi una parte dell’intellighenzia giustizialista che, poco interessata al riformismo liberale, potrebbe venir attratta da eccitanti prospettive di una ulteriore regolamentazione legislativa e giudiziaria dell’economia. Che la lotta alla corruzione, pratica questa tipicamente statale, debba essere posta in essere – “immediatamente”! – dallo Stato medesimo, mi pare poi una assurdità logica poco degna dell’onestà intellettuale di Giannino. Sospetto quindi che vi sia lo zampino di qualche legalista promotore del manifesto. Ciò nondimeno mi esimo dal far nomi, evitando accuratamente di citare Michele Boldrin.


[continua]

Ripartire da Giannino? (parte prima)

di Damiano Mondini




Premetto innanzitutto di aver firmato senza esitazione il manifesto promosso nelle scorse settimane dal giornalista Oscar Giannino, per la stima personale da me provata nei confronti suoi e di numerosi altri firmatari dell'iniziativa. Va riconosciuto che le dieci proposte di "Fermare il Declino" sono, nell'attuale disastrato panorama politico, una boccata d'aria fresca. Dinnanzi ad un PDL ormai completamente deragliato dal binario della Libertà, ad un PD che ha deviato da esso molto tempo fa e alle altre forze politiche minori lontane anni luce degli ideali liberali (con eccezioni talmente rare e puntiformi da essere irrilevanti), risulta difficile non apprezzare questo barlume di speranza. Sono per attitudine incline all'ottimismo, nondimeno vorrei evitare di cedere ad un eccessivo entusiasmo nei riguardi di questa iniziativa. Benché ne apprezzi alcune sollecitazioni, e ne comprenda gli intento di fondo, mi sento comunque in dovere di avanzare alcune personalissime riserve, sia sull’impianto generale che su alcuni particolari delle dieci proposte. In primo luogo, rilevo con profondo dispiacere l’esplicito intento dei promotori di espungere qualsivoglia orizzonte ideologico dal progetto: se comprendo perfettamente la ratio di una tale operazione (ovvero imbarcare quanti più sostenitori possibili dalle svariate sensibilità politiche), ritengo in ogni caso più dannoso che altro il mancato ancoramento ai solidi ideali liberali che questa associazione dovrebbe portare avanti; in questo modo, pur ammettendo di moltiplicare i consensi, si rischia di cadere in quell’opportunismo che avvelena la politica da troppo tempo. Non soltanto questo mi fa sospettare un atteggiamento opportunista da parte dei promotori: anche l’estrema prudenza mostrata nei dettagli delle proposte mi fa temere che questo gradualismo si tradurrà (nella migliore delle ipotesi) in un futile immobilismo, sempre che l’intento compromissorio non finirà per far avallare dei passi indietro invece che dei timidi passi avanti. A tal proposito, taccio per amor di patria di alcuni rumors che vorrebbero l’iniziativa di Giannino vicina ad ambienti confindustriali (ricordo che Confindustria vuol dire mercantilismo, non libero mercato!), pidiellini o leghisti; spero siano solo calunnie, e perciò non intendo avallare il dubbio discutendone. Veniamo ora ad una breve analisi delle "10 proposte", che schematizzo per rendere più gradevole la lettura:


1) Ridurre l’ammontare del debito pubblico. E’ chiaro che questa deve essere la bussola di qualsiasi movimento/partito politico, soprattutto allorquando si trova ad occupare incarichi di governo o a sedere nelle nobili aule del Palazzo. Se davvero lo si facesse scendere sotto la soglia del 100% del PIL attraverso cessioni di attivi patrimoniali pubblici (immobili, partecipazioni azionarie), privatizzazioni/liberalizzazioni dei servizi e drastici tagli di spesa (magari anche dei costi della politica), sarei assolutamente d’accordo. L’importante è che non si continui a fare aggio sull’avanzo primario, ossia spremendo i contribuenti con nuove tasse e aliquote sempre più vertiginose, o magari inventandosi un’altra patrimoniale sul lusso per punire l'antisociale egoismo dei "ricchi", o un prelievo forzoso sui conti correnti sul modello Amato. Poiché mi pare che Giannino escluda categoricamente questa seconda opzione e sostenga con forza la prima, direi che su questo mi trova assolutamente dalla sua parte.


2) Ridurre la spesa pubblica di almeno 6 punti percentuali del PIL nell'arco di 5 anni. Ho appena detto che i tagli di spesa dovranno essere drastici: se optiamo invece per questo stomachevole gradualismo, prima che le decurtazioni di spesa facciano sentire i loro effetti benefici e permettano di ridurre la pressione fiscale temo che saremo al parco giochi coi nostri pronipoti (intendeva forse questo John Maynard Keynes quando disse che "nel lungo periodo saremo tutto morti"?). Si dovrebbero invece rigettare una volta per tutte le logiche parassitarie della spesa finalizzata alla crescita e le indecenze dell'ideale socialista della redistribuzione. E' però necessario farlo nel più breve tempo possibile, prima che il sistema si renda del tutto irriformabile, condannandosi così ad un impietoso (ma forse inevitabile) fallimento. E dubito seriamente che, nelle attuali condizioni sociali ma soprattutto culturali, il default aprirebbe le porte ad un futuro libertario: più che la rivoluzione americana ci attende il tracollo di Weimar.


3) Ridurre la pressione fiscale complessiva di almeno 5 punti in 5 anni. E’ inutile che mi ripeta: chiaramente si va nella direzione giusta (ricordo il motto del Tea Party, "meno tasse e più libertà!"), ma con questi ritmi non solo fra cinque anni saremo sostanzialmente al punto di prima, ma considerando come funziona la politica c’è seriamente da sospettare che staremo messi sempre peggio. Ricordo che attualmente la pressione fiscale "ufficiale" si situa intorno al 45% e quella realmente percepita dai contribuenti al 55%; persino Attilio Befera qualche settimana fa sosteneva, con una notevole faccia tosta, che alcuni imprenditori sopportano anche un livello di imposizione fiscale vicino al 70%, vivendo cioè per mantenere quella bestiaccia famelica dello Stato. E qualcuno crede veramente che con la flemma di questa proposta arriveremo mai da qualche parte? E' opinione mia, oltre che del suddetto Tea Party, che Giannino dovrebbe piuttosto richiedere riforme più concrete: una riduzione generalizzata, rapida e significativa degli oneri fiscali, privilegiando innanzitutto lavoratori autonomi, dipendenti, piccole e medie imprese; una semplificazione delle pratiche di riscossione; una revisione in senso "umanitario" del controllo fiscale che, ai livelli attuali, ci rende di fatto sudditi di uno Stato di polizia tributaria (si veda in proposito il pamphlet Sudditi edito da IBL Libri); l'abolizione della figura giuridica deleteria e liberticida del sostituto d'imposta, contro cui si batte da tempo il grande Giorgio Fidenato; l'ottenimento, infine, della tanto agognata Flat Tax, una "tassa piatta" in grado di garantire a tutti la medesima aliquota, necessariamente inferiore alla minore aliquota attuale.

[continua]