sabato 27 ottobre 2012

Libertà (in)costituzionali

di Paolo Amighetti



L'unità italiana è intoccabile, lo dice la Costituzione. L'articolo 5 non lascia dubbi: la repubblica è una e indivisibile. Non si può lacerare lo stivale: i secessionisti dovrebbero mettersi il cuore in pace. Eppure l'indipendentismo gode in Veneto di un crescente consenso; movimenti come Veneto Stato e Indipendenza Veneta stanno catturando l'interesse della società civile, e all'estero già si discute su come si evolverà la situazione nei prossimi mesi. Le ventimila firme a favore di un referendum per l'indipendenza del Veneto non sono uno scherzo; e non si dovrebbe far spallucce dei 42 consiglieri regionali su 60 che desiderano indire una seduta straordinaria per discutere di indipendenza.

giovedì 25 ottobre 2012

Diritto alla follia e liberalismo

di Miki Biasi

Qualche giorno fa, il mio professore di diritto commerciale ha detto qualcosa che mi ha fatto riflettere:
parlavamo tanto di “autonomia privata”, cioè la libertà riconosciuta ai privati di regolare come credono i rapporti intercorrenti tra loro, quanto del suo opposto, cioè un legislatore che predetermina e prescrive il contenuto di qualsivoglia accordo che possa intercorrere tra i privati.
 Questi due concetti, così diversi, possono convivere (e convivono) in un unico ordinamento giuridico. Tuttavia, bisogna tener ben presente che ogni ampliamento della sfera dell’uno, determina una pari diminuzione di quella dell’altro: se si riconosce maggiore autonomia privata necessariamente diminuisce il peso della volontà del legislatore nelle scelte dei singoli soggetti e viceversa.

Tornando alla lezione di diritto commerciale, il mio professore, parlando dell’autonomia privata e dei suoi limiti nel diritto societario , ha affermato che, tutto sommato, il nostro legislatore riconosce ai privati la possibilità di autodeterminare il contenuto dei loro reciproci rapporti e, in taluni casi, addirittura permette loro di darvi un contenuto FOLLE.nota 1, nota 2

Ma cosa c’entra la follia (o meglio, il diritto alla follia) con il liberalismo?

lunedì 22 ottobre 2012

L'annosa questione del valore: la controrivoluzione classica

di Damiano Mondini


Una rinascita tomista. Accanto all’avanzata elaborazione di Olivi, nel Medioevo era stato tuttavia presente un indirizzo teorico volto alla ricerca del cosiddetto “giusto prezzo”, determinato esclusivamente dai costi di produzione del bene. Un netto superamento di questa teoria – una variante della quale darà in seguito il alla teoria del valore-lavoro – si trova nella speculazione della Scuola di Salamanca (XVII secolo), e in modo particolare nel pensiero del domenicano Doctor Navarrus e del gesuita Luis de Molina. Navarrus, interessato agli effetti dell’arrivo di metalli preziosi dalle Americhe, rileva come nei paesi dove il metallo è scarso il prezzo sia più elevato rispetto a dove esso è più abbondante. Ne deduce correttamente che parte del valore del metallo prezioso derivi di necessità dal suo grado più o meno elevato di scarsità; su queste basi fonderà una embrionale teoria quantitativa della moneta, ma questo esula dal nostro excursus sul valore. De Molina ha il merito di aver trattato diffusamente una teoria soggettiva del valore e del prezzo, sostenendo che l’utilità di un bene varia da persona a persona, e che dunque il “giusto prezzo” viene determinato dalle interazioni commerciali, al netto delle distorsioni monopolistiche, delle violazioni di proprietà e degli interventi governativi. Se pure è vero che la Scuola di Salamanca non ha poi sviluppato queste intuizioni in modo sistematico, le va riconosciuto il merito di aver ampiamente anticipato, e non solo in questo ambito, alcune delle principali conclusioni della Scuola Austriaca.

venerdì 19 ottobre 2012

L'annosa questione del valore: alle origini del problema

di Damiano Mondini


Non v’è dubbio alcuno che, fra i diversi concetti affrontati dall’analisi economica, quello del valore dei beni rappresenti un’imprescindibile pietra miliare. In effetti, nulla sembra più proprio della scienza economica che rispondere ad una domanda tanto semplice quanto insidiosa: come determinare il valore di un bene economico? Detto altrimenti: di fronte ad una “merce” -  termine scientificamente inesatto, ma adorato dalla vulgata marxista -, è possibile individuare un metodo, il più accurato possibile, per capire quanto vale? A ciò si aggiunga il fatto che, come si vedrà, dalla risposta a questa domanda derivano diversissime prese di posizione su cardini stessi dell’economia politica, nonché molteplici e contrastanti opinioni politiche. Stupisce dunque che una questione tanto scottante sia rimasta sostanzialmente insoluta quanto meno fino al 1871: nei secoli precedenti l’uomo aveva codificato il diritto, aveva composto la Divina Commedia e il Clavicembalo ben temperato, aveva fatto progressi tecnologici sbalorditivi; ciò nondimeno, non era stato in grado di risolvere adeguatamente il problema del valore. Non deve meravigliare, dunque, che nel mondo accademico ancor oggi la questione non venga affrontata con la dovuta chiarezza, e che posizioni ormai superate permangano come incrostazioni. Del resto, il mondo “reale” dell’economia vera, non quella delle Università ma quella del commercio, dei mercati e dei bar, pare averla risolta senza difficoltà, più con spirito pragmatico che con minuzia intellettuale: un’ulteriore conferma che l’intelligenza è spesso altro dall’acculturazione. In questo scritto ci si propone dunque di ripercorrere brevemente la storia del pensiero economico, soffermandosi sulle differenti risposte date all’annosa questione del valore.


giovedì 18 ottobre 2012

Stato, mercato e disboscamento selvaggio


 di Miki Biasi



La parola “disboscamento” ha un preciso significato di cui possiamo venire a conoscenza aprendo un qualsivoglia vocabolario: il taglio degli alberi del bosco.
Ovviamente, per definire in maniera concisa quell’attività, potrebbe non piacere la parola “disboscamento” e qualcuno potrebbe perferire altri vocaboli. Ciò, comunque, non ne metterebbe in discussione il significato.

La situazione cambia, radicalmente, nel momento in cui compiamo queste tre operazioni mentali:
1) accostiamo alla parola “disboscamento” l’aggettivo “selvaggio”;
2) consideriamo l’aggettivo “selvaggio” in queste tre accezioni: “non considerazione gli effetti di lungo termine”, “a scapito degli altri” e “a proprio esclusivo vantaggio”.
3) attribuiamo alla locuzione “disboscamento selvaggio” il significato di taglio degli alberi di un bosco, operato dalle imprese, in un sistema capitalistico in cui vige la tutela della proprietà privata.

Proviamo, quindi, a verificare l’effettività del collegamento  tra queste 3 accezioni dell’aggettivo “selvaggio” e la tutela della proprietà privata nel libero mercato.

mercoledì 17 ottobre 2012

Libertà e «istanze sociali»

di Andrea Fenocchio*

Quando poniamo mente ai concetti di liberalismo e di socialismo in genere concordiamo nel considerarli antitetici. Eppure, più di un intellettuale ha creduto non solo ch'essi siano conciliabili ma che addirittura possano essere ritenuti coessenziali. Se tralasciamo il «socialismo liberale» di Carlo Rosselli, il martire antifascista esule in terra francese, il più alto livello di teoresi di una necessità dell'associazione delle idee di socialismo e libertà può senza paura d'errore essere ragionevolmente riconosciuto a Guido Calogero.Il Calogero, al di là di ogni giudizio politico, va considerato come uno dei più alti rappresentanti della cultura italiana: fine e dotto umanista, acuto studioso della filosofia antica (si vedano per esempio i saggi Fondamenti della logica Aristotelica e Studi sull'Eleatismo), si avviò alla filosofia politica sotto l'influenza dei testi crociani e di Gentile di cui fu discepolo e amico e col quale stabilì un proficuo rapporto di scambio intellettuale.



lunedì 15 ottobre 2012

Gallio: prove di «contro-risorgimento» (parte seconda)

di Damiano Mondini
Ante meridiem. La mattinata è stata un sostanziale tour de force nel mondo libertario e indipendentista, una realtà grondante di fascino. Con tre compagni di viaggio d’eccellenza, i prufesùr Carlo Lottieri, Luigi Marco Bassani e Alessandro Vitale. Conclude un intervento, ad avviso di chi scrive, deludente e fuori luogo di Oscar Giannino. Sale l’aspettativa per la sessione pomeridiana.
Post meridiem. Alla “tavola rotonda” pomeridiana siedono cinque professori universitari degni della miglior nota: il già citato Lottieri dell’Università di Siena, Daniele Velo Delbrenta dell’Università di Verona, Alberto Berardi dell’Università di Padova, Andrea Favaro dello Studium Generale Marcianum di Venezia e Paolo Bernardini dell’Università dell’Insubria di Como. Il simposio si ripropone di riflettere sui temi dell’indipendenza – del resto, la pietra d’angolo della giornata -, della Costituzione, dello Stato, del diritto e della libertà. Un obiettivo dunque ambizioso, ma che nondimeno è stato indubbiamente raggiunto, superando persino le aspettative dell’uditorio.


domenica 14 ottobre 2012

Gallio: prove di «contro-risorgimento» (parte prima)

di Paolo Amighetti

Per discutere di indipendenza e autodeterminazione non c'è posto migliore dell'altopiano di Asiago: per cinquecento anni questi monti a ridosso della Mitteleuropa hanno ospitato infatti la Spettabile Reggenza dei Sette Comuni, federazione pacifica e del tutto autonoma che solo Napoleone, all'inizio dell'Ottocento, si risolse a spazzar via. Con buona pace del gran museo a cielo aperto che ricorda il dramma della guerra bianca del 1915-1918, condotta per «liberare» le terre irredente, ieri s'è parlato di come dare avvio al contro-risorgimento italiano: di come il Veneto potrebbe salutare l'Italia, imitando la Catalogna, sempre più lontana da Madrid, e la Scozia, alla quale basta aspettare il referendum del 2014.

sabato 13 ottobre 2012

Libero mercato: Fumo SI o Fumo NO?

di Miki Biasi



    Il fumo delle sigarette…
Come il sigaro ieri e la pipa l’altro ieri, al giorno d’oggi è la sigaretta che piace.
Qualcuno, però, odia il fumo che ne consegue all’uso.
Non ho la minima idea se, oltre a dar fastidio, faccia anche male ai non fumatori. Ammettiamo, però, che sia così. Questo non potrebbe che essere un motivo in più per chiedere al governo di intervenire, giusto?
Quindi chiediamo insieme:  “O’ Governo, abolisci l’uso del fumo e punisci i fumatori perché loro ignorano il male che si procurano e quello che arrecano agli altri.”

Pare che questa richiesta, qualche tempo fa, sia giunta a destinazione.
Tuttavia, al governo doveva esserci qualcuno con un posticino, nel suo cuore, riservato alla libertà individuale: la richiesta non ebbe fortuna, per lo meno, nelle case degli abitanti di quel territorio che suol chiamarsi Italia.

Cosa è stato disposto quindi?

venerdì 12 ottobre 2012

Cronache da un'economia in crisi

di Damiano Mondini

Ieri sera (11 ottobre) si è tenuta presso l’Auditorium della sede de Il Sole 24 Ore a Milano una manifestazione culturale di grande efficacia emotiva. Radio 24, in collaborazione col London Short Film Festival, ha contribuito alla realizzazione di cinque cortometraggi, presentati in occasione del Festival delle Lettere 2012. Scopo della kermesse, rivalutare la lettera come strumento comunicativo, artistico ed espressivo. Il tema, quanto mai di attualità: la crisi economica, vista cogli occhi di chi l’ha vissuta e continua a viverla sulla propria pelle; artigiani, lavoratori autonomi e piccoli e medi imprenditori, vittime di cattivi pagatori, di uno Stato iniquo ed esoso, di un sistema bancario in cortocircuito fra insolvenza tecnica e credit crunch. Il soggetto adattato, cinque lettere scelte fra le centinaia pervenute alla redazione di Radio 24 per l’iniziativa Disperati mai.

giovedì 11 ottobre 2012

Tutti a Gallio!


Un grande evento bolle in pentola: il 13 ottobre, a Gallio, in provincia di Vicenza, si terrà un lungo convegno sul tema dell'indipendenza. Il titolo è indicativo: "Indipendenza: un referendum per la libertà?". Tra i relatori, del calibro di Alessandro Vitale, Marco Bassani e Carlo Lottieri, anche Oscar Giannino. Una sessione mattutina e una pomeridiana, un'occasione di dialogo e dibattito sul presente e sul futuro dell'Europa, in bilico tra il superstato di Bruxelles e le piccole patrie come Veneto, Scozia e Catalogna: ce n'è abbastanza per disdire qualunque impegno. Ulteriori informazioni sul sito dell'associazione Diritto di Voto.

mercoledì 10 ottobre 2012

Invito al pensiero di Murray N. Rothbard (parte seconda)

di Damiano Mondini

Dal liberalismo all’anarchismo
I liberali sono anarchici ma non lo sanno, gli anarchici sono liberali ma non lo vogliono dire, e i libertari sono liberali e anarchici consapevoli ed espliciti, anzi: sono anarchici perché liberali.
                Nicola Iannello

Nel regno della politica, ovvero nell’azione dello Stato, il diritto naturale fornisce all’uomo una serie di norme che possono essere radicalmente critiche nei confronti del diritto positivo esistente imposto dallo Stato. […] La semplice esistenza di un diritto naturale che la ragione può scoprire [è] una minaccia, potenzialmente assai seria, allo status quo e un permanente atto d’accusa al regno della cieca adesione alla tradizione o a quello dell’arbitraria volontà dell’apparato statale.
Murray N. Rothbard


Il pensiero anarchico americano precedente a Rothbard (si pensi a Henry David Thoreau, Benjamin Tucker e Albert Jay Nock) aveva identificato lo Stato come il supremo detentore del potere politico, ovvero della possibilità di intervenire coercitivamente nella società e nella vita degli individui. Questi pensatori, diversamente da molti anarchici europei ben più nichilisti, non sognavano la disgregazione dei legami sociali e il caos generale: al contrario,  essi credevano nella società come insieme dei rapporti spontanei e volontari fra gli individui, nei quali non intervenissero né coercizione né potere arbitrario. Il loro volontarismo, dunque, innalzava la società civile e condannava lo Stato come immorale ed illegittimo. Il sociologo tedesco Franz Oppenheimer aveva sostenuto che vi fossero due modi per ottenere ricchezza: il primo modo consiste nello scambio volontario, nel lavoro, nella compravendita e nel dono, è considerato legittimo ed è definito “mezzo economico”; il secondo modo consiste nel furto o nell’appropriazione indebita, nell’espropriazione coercitiva e violenta della ricchezza prodotta da altri, è considerato illegittimo e viene definito “mezzo politico”. Rifacendosi a questa analisi, gli anarchici americani concludevano che lo Stato non è altro che il supremo organizzatore dei mezzi politici. Rothbard si inserisce nel solco di questa tradizione, e contribuisce a rafforzarla attraverso la dottrina del diritto naturale. Innanzitutto, lo Stato deve la sua stessa esistenza alla violazione dell’assioma di non aggressione, essendo il suo potere imposto ai cittadini, senza derivare da un loro esplicito consenso; del resto, nessuna persona dotata di senno acconsentirebbe spontaneamente a che un’autorità coercitiva imponga il proprio controllo unilaterale sulla sua vita e le sue proprietà. In secondo luogo, lo Stato si mantiene attraverso la tassazione, che si configura come un’espropriazione coercitiva, e non certo volontaria, della legittima proprietà di ognuno: una sorta di “furto legalizzato” cui difficilmente corrispondono servizi proporzionati, non essendovi il fondamentale incentivo all’efficienza dato dal meccanismo della concorrenza, tipico del mercato ma non dello Stato. Inoltre, detenendo il monopolio della forza, oltre che della tassazione, lo Stato si premura di non avere possibili concorrenti che possano indebolire il suo potere, vulnerando ulteriormente il diritto all’autodeterminazione dei propri cittadini, che in questo modo divengono sudditi del suo arbitrio. Più lo Stato si impone, dunque, più gli uomini scivolano verso quella che Hayek ha definito la “via della schiavitù”. La soluzione proposta da Rothbard è tanto semplice quanto radicale: lo Stato, detentore del monopolio della forza e organizzatore dei mezzi politici, va espunto totalmente dall’ordine sociale: solo così si possono tutelare i diritti degli individui, e la società può dirsi giusta almeno nelle sue primarie fondamenta.

lunedì 8 ottobre 2012

Invito al pensiero di Murray N. Rothbard (parte prima)

di Damiano Mondini

Grazie al pensiero del filosofo ed economista americano Murray Newton Rothbard (1926-1995), la tradizione liberale e quella anarchica vengono a convergere nell’anarchismo liberale o “anarco-capitalismo”, termine coniato negli anni ’50 dallo stesso Rothbard. La sua personale elaborazione risente dell’influsso di diverse tradizioni filosofiche ed economiche: l’anarchismo individualista americano, il giusnaturalismo, la Scuola Austriaca dell’economia, la ricerca dell’essenza dell’uomo di matrice aristotelico-tomista, la dottrina lockeiana dei diritti assoluti di proprietà. Di conseguenza il suo pensiero è una sintesi coerente dotata di una metodologia ultrarazionale, sulla quale viene fondata una difesa perentoria della libertà e dei diritti inalienabili dell’uomo, operata all’insegna di un individualismo metodologico radicale. Tale difesa implica la necessità di espungere la coercizione e il dominio dell’uomo sull’uomo dall’ordine sociale: in questo senso essa implica l’anarchia, ovvero la dispersione di ogni forma di potere, e dunque l’abolizione dello Stato e la risoluzione del dato sociale in forme differenti dalla statualità. Secondo le parole del professor Luigi Marco Bassani, docente di Storia delle dottrine politiche dell’Università di Milano e attento studioso del pensiero libertario americano,
chi si occupa di pensiero politico liberale classico troverà nella costruzione di Rothbard una sorta di termine ad quem, una soglia, inestricabilmente commista di anarchismo e liberalismo, che non è possibile oltrepassare. Poiché se è vero che nel fondo di ogni pensatore autenticamente liberale si nasconde un anarchico, Rothbard, con quel candore tipico degli eretici [poco prima lo aveva definito un happy warrior, n.d.r.], lascia affiorare sia il suo anarchismo, sia il suo liberalismo, costringendoci a guardare con lenti del tutto nuove queste due grandi tradizioni politiche.

sabato 6 ottobre 2012

Per un indipendentismo liberale e libertario

di Paolo Amighetti

Negli anni Novanta l'Italia fu scossa da due gravi terremoti che sconvolsero la scena politica: lo scandalo di Tangentopoli, che segnò la caduta fragorosa del sistema partitocratico della «prima repubblica», e l'avanzata, costante ed inarrestabile, del fenomeno leghista. 
Tra il 1989 e il 1994, tutti i nodi parevano ormai venuti al pettine: si dissolvevano sia l'ordine mondiale bipolare della guerra fredda, sia il sistema partitico italiano che aveva retto le sorti della repubblica per quasi cinquant'anni. Il crollo del muro di Berlino e lo scioglimento dell'URSS decretavano la scomparsa del socialismo reale, e una moltitudine di nuovi Stati dichiarava la propria indipendenza da Mosca.

La Cecoslovacchia si scindeva pacificamente per fare spazio alla Repubblica Ceca e alla Slovacchia; la stessa Jugoslavia, spossata dalle spinte centrifughe delle ex-repubbliche federative, crollava su se stessa e scivolava in una spirale di violenza. Tutti questi eventi impressionarono molto gli osservatori e gli studiosi, e Gianfranco Miglio in particolare: secondo il costituzionalista comasco, la fine della guerra fredda coincideva con una svolta ben più profonda e significativa, e cioè con il tramonto dello Stato moderno.

«Quello che è accaduto alla fine del secolo, il nostro '89, è paragonabile per portata ed importanza soltanto al 1789; [...] è un evento di portata storica eccezionale. Due sono gli sviluppi: c'è la caduta di una certa concezione dello Stato, [...] il crollo dei regimi comunisti ha significato la dissoluzione di una concezione dello Stato che era cominciata con la rivoluzione del 1789; l'altro sviluppo è legato alla fine dello Stato omogeneizzante, unitario, sovrano, eterno nel tempo, che ha il diritto di ridurre tutti all'omogeneità, perché questo concetto va in liquidazione. Ed ecco l'emergere dei particolarismi.» [1]

Ed ecco, cioè, l'emergere delle «piccole patrie» nell'Europa continentale e del regionalismo leghista nell'Italia settentrionale. Miglio riteneva che la fase «ad alta intensità politica» del dopoguerra, dominata dall'ideologia, si fosse ormai esaurita per lasciar spazio ad un'epoca in cui avrebbero prevalso i rapporti contrattuali tra privati e comunità ristrette; d'altronde la rivoluzione tecnologica, l'avvento dei computer, di internet e il processo di globalizzazione sembravano dare ragione a chi sosteneva che i confini, i decreti, insomma i vincoli di Stato fossero inadeguati ai tempi. Così il profesùr decise di appoggiare il movimento di Bossi, che sembrava deciso a riformare radicalmente il sistema. Peraltro la Lega, che era estranea al regime partitocratico, poteva trarre vantaggio dal disfacimento della «prima repubblica»; e non è un caso che Bossi abbia soffiato a lungo sul fuoco dell'indignazione popolare, e che in un primo tempo molti lo abbiano votato soprattutto per castigare i vecchi partiti di governo.

La Lega, movimento di protesta, propugnava una vera rivoluzione: nel clima tutto particolare dei primi anni Novanta, infatti, introdusse nel dibattito politico i temi del federalismo, condannando la redistribuzione della ricchezza; anche per questo strati sempre più consistenti della borghesia settentrionale davano il proprio consenso al movimento nordista. Dopo la rottura con Miglio e la prima esperienza di governo, terminata con il celebre «ribaltone», Bossi diede il via alla campagna per «l'indipendenza della Padania»: alle elezioni del 1996 il movimento si presentò quale alternativa ai due schieramenti di centrodestra e centrosinistra, conquistando il più alto numero di voti nella sua storia: 4.038.239. [2]

Alle parole e ai numeri non seguirono i fatti, e qualche anno dopo la Lega, abbandonata l'«avventura» separatista, tornava dalla parte di Berlusconi. Gli indipendentisti si trovarono dinanzi ad un bivio: rinnegare la secessione per seguire le manovre strategiche del capo, o abbandonare il movimento per cercar fortuna altrove?

venerdì 5 ottobre 2012

F.A. Hayek: via della schiavitù e via della libertà


di Damiano Mondini


Credo che, dopo un po' di socialismo, la gente riconosca generalmente che è preferibile, per il proprio benessere e relativo status, dipendere dall'esito del gioco del mercato piuttosto che dalla volontà di un superiore al quale si sia assegnati d'autorità.
Friedrich von Hayek

Il socialismo: la via della schiavitù
Nel suo testo divulgativo più importante, The Road to Serfdom (1944), il filosofo ed economista austriaco Friedrich August von Hayek (1899-1992) analizza nel dettaglio il modo in cui il mondo contemporaneo si sta muovendo inesorabilmente verso quella che egli definisce la "via della schiavitù", di cui i totalitarismi, le guerre e le deportazioni di massa sono le manifestazioni più evidenti. La tesi sostenuta nel corso del testo è che la matrice comune dei regimi totalitari, che hanno condotto il mondo sul baratro del secondo conflitto mondiale, vada ricercata nel pensiero socialista. Il socialismo, infatti, se da un lato si ammanta di aneliti di giustizia, libertà e uguaglianza, dall'altro si rivela nel profondo intrinsecamente liberticida. Come Hayek sottolinea, esso nacque tirannico, e fu solo nel corso del XIX secolo che si contaminò di ideali democratici che tuttavia non ne snaturarono la recondita natura dittatoriale, che del resto le varie forme di "socialismo reale" non hanno mancato di far riaffiorare. Che il socialismo, l'ideale egualitario sorto formalmente a difesa dei diritti dei più deboli e per la risoluzione della "questione sociale", fosse fin dall'inizio di natura illiberale, può apparire una tesi forte: tuttavia, essa viene affermata con forza da Hayek.
Oggi di rado ci si rammenta che il socialismo, ai suoi inizi, fu chiaramente autoritario. Gli scrittori francesi che posero le basi del socialismo moderno non avevano alcun dubbio che le loro idee potevano venir messe in pratica soltanto da un forte governo dittatoriale. Per loro, il socialismo significava un tentativo di "portare a termine la rivoluzione" per mezzo di una intenzionale riorganizzazione della società progettata su basi gerarchiche e ad opera dell'imposizione di un "potere spirituale" coercitivo. Per quel che concerneva la libertà, i fondatori del socialismo non nascosero affatto le loro intenzioni. Essi vedevano nella libertà di pensiero il peccato originale della società del diciannovesimo secolo; e il primo dei moderni pianificatori, Saint- Simon, annunciava addirittura che quanti non avessero ubbidito ai comitati per la pianificazione da lui proposti sarebbero stati "trattati come bestiame".

giovedì 4 ottobre 2012

Legalità e mass-media

di Paolo Amighetti

La società del ventunesimo secolo è profondamente diversa da quelle che l'hanno preceduta nella storia; molti elementi la contraddistinguono da quelle passate e contribuiscono a renderla più complessa, problematica, sfaccettata di ogni altra. Negli ultimi due secoli tante innovazioni e scoperte hanno rivoluzionato la vita della società civile, modificandone le abitudini e le stesse caratteristiche. Come tutti i Paesi occidentali, anche l'Italia ha vissuto questi cambiamenti, che l'hanno senza dubbio trasformata. La società chiusa e provinciale di inizio Novecento, dagli orizzonti limitati ed estremamente ristretti, è solo un ricordo; oggi siamo in contatto diretto con il mondo intero, grazie alla rete, ai cellulari, ai mass-media. Non per nulla, a detta di molti esperti, siamo appena usciti dalla cosiddetta era dell'informazione per entrare in quella, ancora più innovativa, delle telecomunicazioni. Nel corso degli ultimi decenni, i mezzi di comunicazione di massa si sono diffusi e sviluppati in efficacia. Nella prima metà dello scorso secolo ai media tradizionali come i quotidiani si sono affiancati per la prima volta la radio e il cinema, ed infine qualche anno più tardi la televisione. Anche grazie ad essi, alcuni dei più efferati regimi politici sono riusciti a controllare e dominare l'intera società, eliminandone ogni capacità di reazione: basti pensare all'efficacia del Ministero della Propaganda di Joseph Goebbels, o all'uso che il regime nordcoreano fa del mezzo televisivo. Tra parentesi: la recente campagna della RAI contro gli evasori fiscali, «parassiti della società», cos'è se non un tentativo di diffondere una menzogna governativa per trasformarla in verità? Ad ogni modo, l'avvento di Internet ha aggiunto un altro importante tassello all'attuale, gigantesco mosaico dei mass-media.



Il denaro è la radice di tutti i mali?

di Miki Biasi


Alcune volte, succede di sentire o leggere, più o meno in quest ordine, tali proposizioni:
 Il denaro è il cancro della società! Torniamo al baratto! Staremo meglio! Non saremo più schiavi! Aboliamo il denaro!

Ma cos’è questo demonio chiamato denaro?
E’ un bene utilizzato come medio di scambio. Esso, però, si differenzia dagli altri beni medi di scambio per il fatto di essere generalmente accettato da tutti in cambio di qualsivoglia altro bene. Quindi, perché prendersela così tanto con il denaro?
 Forse che l’abolizione del denaro sia soluzione di tutti i problemi e noi non ce ne accorgiamo? Probabile.
Tuttavia, il fascino di una proposta così innovativa e retrograda non può esimere dal vagliarne la fondatezza.

Immaginiamo che il parlamento italiano approvi, con legge costituzionale, l’abolizione ed il divieto del denaro imponendo esclusivamente il baratto/scambio diretto, cioè esclusivamente lo scambio di beni propri contro beni altrui che abbiano un'utilità, per così dire, diretta (consumo, produzione).
Immaginiamo, poi, un uomo (d’ora in poi chiamato Primo) in possesso di un modesto podere che si affaccia su un fiume e confina con i terreni appartenenti ad altri uomini: Secondo, Terzo, Quarto e Quinto.

mercoledì 3 ottobre 2012

2+2=5

di Paolo Amighetti


Per un abitante di Oceania, la fede nel Grande Fratello deve essere più forte di ogni scrupolo affettivo e di qualsiasi considerazione logica. I teleschermi, oltre a riprendere la vita dei cittadini, ne scandiscono i ritmi con musiche patriottiche ed inni alla grandezza del Grande Fratello. Spesso una metallica voce femminile elenca con compiacimento le cifre della produzione, sempre più elevate, ed esalta il costante miglioramento delle condizioni di vita sotto l'illuminata guida del capo. Le statue del dittatore, che nessun membro del partito esterno e nessun prolet ha mai visto in carne e ossa, riempiono le piazze in memoria di eccezionali vittorie militari. Tale culto della personalità fa del Grande Fratello una figura paterna ed amorevole per la stragrande maggioranza dei cittadini: nel volto stampato sui manifesti e sulle monete milioni di sudditi indottrinati vedono un sorriso malcelato e benevolo, e occhi saggi e premurosi.

Si concretizza così il paradosso terribile della sincera adorazione del tiranno da parte degli oppressi, che non è certo un'esclusiva del dittatore orwelliano. Stalin, al quale la propaganda sovietica attribuiva gesta che egli non aveva mai compiuto, venne pianto dal popolo quando calò nella tomba nel marzo 1953; i nordcoreani hanno un amore sconfinato per i vecchi leader Kim Il-Sung e Kim Jong-Il, e venerano allo stesso modo Kim Jong Un; Mao Tze Tung, le cui frasi figuravano su ogni libro stampato in Cina, era adorato in maniera analoga.

martedì 2 ottobre 2012

Liberalismo e socialismo: libertà e schiavitù

di Damiano Mondini
E’ sufficiente avere un minimo di dimestichezza con il pensiero socialista – nelle sue varie e variopinte manifestazioni – per accorgersi di quanto quelle posizioni che osteggiano la società libera e aperta derivino in ultima istanza da determinati assunti epistemologici. L’illusione di trasformare la società in un mondo più giusto ed equo, rivoluzionandola dalle fondamenta nel tentativo di pervenire ad una “giustizia sociale”, si fonda senz’altro su una tragica incomprensione dei capisaldi della civiltà stessa. Ne consegue, come la storia non ha mancato di testimoniare, che le diverse realizzazioni dell’utopia socialista e del suo sogno di uguaglianza siano destinate a tradursi in un incubi drammatici per le sorti dello stesso mondo civilizzato. Nondimeno, il socialismo ha potuto prosperare sfruttando un apparente difetto dell’impianto teorico del liberalismo: il suo essere inevitabilmente asintotico, la sua impossibilità di delineare un modello definitivo da porre in essere, oltre che delle valide strategie per concretizzarlo [1]. Il pensiero liberale, quello autentico, non ha mai sognato di compiere un rivolgimento dell’ordine sociale, coll’obiettivo di pervenire ad una situazione di perfetto equilibrio stazionario. I liberali, quelli veri, non hanno mai promesso di realizzare un Paradiso terrestre, un Eden di pace, uguaglianza, fraternità, solidarietà e giustizia sociale. Invero, non hanno mai promesso null’altro che di rendere gli individui più liberi, autonomi, indipendenti e padroni di se stessi. Da ciò deriva la nota accusa di “formalismo” rivolta loro dagli intellettuali socialisti, i quali invece prospettano di rendere l’uguaglianza fra gli uomini sostanziale, dunque non solo civile e giuridica, ma anche economica e sociale. Nelle deliziose fantasie Noise from Tea Party, dei socialisti la società perfetta – immancabilmente quella sognata dalla medesima intellighenzia socialista – è dipinta coi colori dell’armonia, della cooperazione fra uomini, dell’amore fraterno, della vita comunitaria, dell’umanitarismo, dell’altruismo e dell’assenza di disparità socio-economiche. E’ difficile resistere all’inebriante progetto prospettato dal socialismo, che infatti ha ammaliato  generazioni di lavoratori, intellettuali, artisti, personaggi noti e uomini della strada. Quasi nessuno ha avuto una forza d’animo tale da non cadere nella tentazione socialista, e questo grazie anche alla propaganda intellettuale che l’ha spalleggiata. La dicotomia fra liberali e socialisti viene infatti sovente prospettata in questi termini: i primi, più elitari, lottarono per il raggiungimento di una eguaglianza puramente formale fra gli individui, per una libertà intesa soltanto ex negativo come assenza di coercizione; i secondi, nascendo dal cuore delle masse, hanno invece preteso di sostanziare l’eguaglianza abolendo le distinzioni economiche frutto di perverse storture sociali, implementando così una libertà positiva che consenta a ciascuno di vivere una vita dignitosa [2].

Quale legalità?

di Paolo Amighetti



Ogni comunità umana sente il bisogno di darsi delle regole e di far sì che tutti i suoi membri le rispettino: distinguere ciò che è
«legale» da ciò che non lo è, dunque, è una necessità comune a tutte le fasi storiche e a tutte le civiltà. Nella nostra epoca, in cui lo Stato moderno è giunto ad una rigida codificazione di ciò che si può e di ciò che non si può fare, il tema della legalità resta uno dei più scottanti.

Bisogna però fare una precisazione: di per sé il termine «legalità» può significare tutto e niente. Essa non è che il compendio delle norme che regolamentano le società e che gli Stati devono far rispettare. Ogni ordinamento, di fatto, riconosce una propria idea di «legalità»: nella Germania nazista non era «illegale» rifiutare ad un ebreo (solo perché tale) un posto di lavoro, e viceversa non era «legale» costituire un'associazione politica nemica del NSDAP.

Bisogna dunque chiedersi: quale legalità? Com'è ovvio, noi abbiamo a che fare con il sistema italiano, con le norme vigenti nel nostro Paese, con l'idea di legalità che da noi è radicata. Senza dubbio il cosiddetto «senso civico» sembra latitare: un aspetto di questa mancanza di decoro civile è proprio il vago disinteresse per la legalità e il rispetto delle norme che dovrebbero regolamentare il nostro vivere assieme. Possibile che il malcostume sia innato nella società civile italiana?

lunedì 1 ottobre 2012

Orwell e lo Stato moderno

di Paolo Amighetti


Il famoso romanzo di George Orwell 1984 è ambientato entro i confini di un superstato totalitario denominato Oceania. La vicenda si svolge a Londra, capitale della provincia di Pista Prima. [1] Sin dalle prime righe l'autore ci illustra lo scenario desolante del centro urbano, tappezzato di colossali manifesti sui quali campeggia il volto «d'un uomo di circa quarantacinque anni, con grossi baffi neri e lineamenti rudi, ma non sgradevoli».

Una scritta ricorre su ogni muro: «Il Grande Fratello vi guarda». Le strade della Londra orwelliana sono sporche, gli edifici decadenti. Molti quartieri sono devastati dai bombardamenti e ricoperti di polvere di calcestruzzo; l'aria, colma di smog e di odori sgradevoli, è irrespirabile. Il protagonista del romanzo, Winston Smith, conduce una vita squallida scandita dai ritmi del lavoro mattutino e pomeridiano. Abita in una piccola camera al settimo piano degli «Appartamenti della Vittoria», fatiscenti alloggi di proprietà dello Stato.
 
Non appena Winston varca l'ingresso domestico, volta istintivamente le spalle al teleschermo che troneggia nella stanza. L'apparecchio, ai nostri occhi, appare subito come il simbolo del regime di Oceania. La sua invadenza e la sua perfezione tecnica sono sottolineate sin dalle prime pagine: «Il teleschermo riceveva e trasmetteva simultaneamente. Qualsiasi suono che Winston avesse prodotto, al di sopra d'un sommesso bisbiglio, sarebbe stato colto; per tutto il tempo, inoltre, in cui egli fosse rimasto nel campo visivo comandato dalla placca di metallo, avrebbe potuto essere, oltre che udito, anche veduto». Il protagonista è attanagliato dalla paura di lasciarsi sfuggire un qualunque gesto che possa smascherare la sua intima repressione per questo assurdo stato di cose. Se fosse scoperto diverrebbe preda della Psicopolizia, terribile organo di difesa dello Stato che punisce non tanto i criminali comuni, quanto i cosiddetti «psicocriminali»: coloro che rifiutano di aderire all'ideologia dominante.

The Liberty Bell: un nuovo inizio

di Paolo Amighetti


Ci lasciamo alle spalle un mese meraviglioso e difficile. The Road to Liberty è nato i primi giorni di settembre ed è cresciuto grazie agli sforzi generosi di tutti noi; abbiamo abbozzato dei progetti, pubblicato in media più di un articolo al giorno e ci siamo fatti conoscere ed apprezzare. Dal 9 settembre siamo anche su Facebook: la nostra pagina (The Road to Liberty) ci ha garantito una visibilità sufficiente ad incoraggiarci nel lavoro. Come promesso, vi abbiamo parlato un po' di tutto: hanno trovato spazio gli interventi puntuali su ambiente ed economia di Miki Biasi, gli approfondimenti sul mondo del lavoro di Tommaso Cabrini e le analisi politico-economiche di Damiano Mondini, oltre ai miei pezzi sulla filosofia libertaria.
Ma dal 17 settembre il blog tace. Voi lettori sapete cos'è successo quel giorno.
La scomparsa di Camilla Bruneri, anima e cuore di The Road to Liberty, ha lasciato un enorme vuoto.
Il valore del suo contributo è stato incalcolabile; i suoi articoli sull'istruzione e sulla scuola, numerosi ed originali; il suo entusiasmo, una malattia contagiosa dalla quale non siamo ancora guariti. Abbiamo scelto di salutarla con poche parole spontanee, e di lasciar perdere il blog per qualche tempo. Oggi rompiamo il silenzio e ci rimettiamo al lavoro: ci sembra il modo migliore per onorare la memoria di Camilla, che in The Road to Liberty aveva messo tutto il suo impegno e la sua passione.