venerdì 2 novembre 2012

Liberalismo: una bozza di riflessione

di Damiano Mondini

Confucio sosteneva che, quando le parole perdono il proprio significato, allora il popolo perde la propria libertà. Mai frase fu più azzeccata: la revisione orwelliana del linguaggio – culminata nell’elaborazione di una vera e propria neolingua – ha colpito e sfigurato alcuni dei termini cardine della dignità dell’uomo. Pietre angolari della civiltà come “libertà”, “giustizia”, “legge”, “uguaglianza”, “diritto” e “società” sono state stravolte e violentate fino a divenire l’ombra di se stesse. La giustapposizione dell’aggettivo “sociale” ha senz'altro contribuito ad aggravare il dramma: è così che sono nati lo “Stato sociale” e la “giustizia sociale”, due fra le più melliflue perversioni del bispensiero contemporaneo. Lo stupro linguistico più grave, tuttavia, ha riguardato i sistemi di idee che si pongono come baluardo della libertà e del rispetto del prossimo: la trasfigurazione del “liberalismo” è un caso paradigmatico. Col medesimo epiteto di “liberale” – o con l’equivalente anglosassone liberal - possono infatti essere indicati gli economisti John Maynard Keynes e Friedrich von Hayek, i Presidenti americani Thomas Jefferson  e Barack Obama, i pensatori politici John Rawls e Murray N. Rothbard. A nulla vale sottolineare che Keynes - che pure rispondeva affermativamente al quesito Am I a liberal? - fu interventista, statalista e filo-totalitario, mentre Hayek sostenne il mercato, la libera intrapresa economica e la democrazia liberale; è inutile rilevare che Jefferson fu un bastione della libertà e della proprietà individuale, mentre Obama ha in animo di subordinare il privato alla magnificenza del pubblico e del governo federale; sarebbe parimenti vano obiettare che Rawls fu un socialista annacquato, quando Rothbard incarnò la più pura radicalità libertaria e anti-socialista. Il parossismo viene raggiunto dai manuali di Storia, che si ostinano a parlare di “Italia liberale” per indicare il governo italiano negli anni 1861-1922.

Prima di ristabilire il corretto significato delle parole – obiettivo modesto, si dirà, ma che pochi esponenti dell’intellighenzia sembrano in grado di conseguire -, è necessario sgombrare il campo dalle incomprensioni. E’ dunque fondamentale ribadire che l’Italia dall’unificazione all’ascesa di Mussolini incarnò tutto ciò che non è liberale: la Destra storica (1861-1876) governò all’insegna dell’accentramento politico-amministrativo e della “piemontizzazione” dello Stato, e giunse al pareggio di bilancio nel 1875 con Quintino Sella solo grazie ad un pesante incremento della pressione fiscale - rammentate l'odiatissima tassa sul macinato? La scelta anticlericale incarnò peraltro un atteggiamento quant'altri mai lungi dall’essere liberale, poiché non tradusse il desiderio di liberare l’uomo dalle catene del pregiudizio, bensì quello di sciogliere il potere supremo dello Stato dalle briglie della Chiesa. La Sinistra storica (1876-1922) passò dal progressismo tendenzialmente statalista di Depretis – foriero di aumenti della spesa pubblica e di scelte protezionistiche – all’autoritarismo di Crispi e ai tentativi di colpo di Stato del generale Pelloux, con l'intermezzo delle fucilate milanesi di Bava Beccaris. Per non essere da meno, Giolitti si cimentò in queste riforme dal dubbio carattere liberale: introduzione di tariffe doganali, incremento delle commesse statali, legislazione sul lavoro dai tratti socialisteggianti, istituzione delle aziende municipalizzate, nazionalizzazione del servizio telefonico, delle ferrovie e del monopolio delle assicurazioni sulla vita; cosa quest'ultima che pose peraltro termine alle gloriose realtà volontaristiche del “mutuo soccorso”. Potremmo continuare con la guerra di Libia e proseguire fino alla torbida vicenda della partecipazione italiana al primo conflitto mondiale, e magari giungere ai micidiali Blocchi nazionali del 1921, ma avremmo solo ulteriori conferme di un dato cruciale: l’Italia liberale fu statalista, autoritaria e anticlericale, ovverossia tutto fuorché liberale. Parimenti fu lontano dal liberalismo autentico il pensiero di Benedetto Croce: la sua “religione della libertà”, infatti, ponendosi hegelianamente come inveramento – Aufhebung – dello statalismo e del liberismo di Bastiat, si traduceva nei fatti in una difesa a spada tratta delle prerogative interventiste e coercitive dello Stato e dei suoi gangli. Lo stesso Luigi Einaudi, che pure riconosceva l’importanza della libertà economica, riteneva fossero di sacrale appannaggio dello Stato numerosissime funzioni, in modo non dissimile dal “programma minimo” di un socialdemocratico. Un caso analogo d'oltremanica è quello dell’economista inglese William Beveridge: costui, a fronte della generosa definizione di liberale, diede vita nell’Inghilterra del secondo dopoguerra al più ambizioso progetto di Welfare State del mondo occidentale, affidando allo Stato il compito paternalistico di assistere attivamente i cittadini – i sudditi, verrebbe da dire – “dalla culla alla tomba”. Se volgiamo lo sguardo ai giorni nostri, possiamo notare quanto la propaganda statalista si sia evoluta, giungendo a disomogeneizzare il liberalismo politico dal liberismo economico. In tal modo - inserendosi in una sdrucciolevole tradizione filosofica che annovera il neoidealismo crociano tra i suoi Padri fondatori - si arriva a considerare liberale chi lotta per i diritti civili e sociali, sostenendo con strenuità un ruolo attivo e forte da parte dello Stato; si taccia al contrario come “liberista selvaggio” chi ricorda, con maggior memoria storica, che l’autentica libertà prevede il regresso, progressivo e finanche definitivo, della mano dello Stato. Liberale e liberista sono concetti ormai del tutto pervertiti, avendo perso la propria forza intellettuale, nonché tristemente la capacità di appassionare: i socialisti possono contare sull'emotività, sul ricordo delle battaglie sindacali, sull'anelito ad un futuro migliore di pace, giustizia e uguaglianza; i liberali, al contrario, difficilmente possono mietere consensi tessendo le lodi del nostro passato monarchico o dei gloriosi anni del PLI di Altissimo. Si è dunque convenuto sulla necessità di rinnovare il lessico politico.  Gli anglosassoni hanno superato il problema indicando liberali radicali e liberisti convinti col termine libertarians: è così che, ad esempio, nel 1971 è nato negli Stati Uniti il Libertarian Party, che incarna il liberalismo più coerente e che risulta tuttora il terzo partito americano. Parimenti, chi oggi in Italia voglia ancora portare avanti un’agguerrita difesa dell’autentica libertà non può che definirsi “libertario”, almeno in attesa di riappropriarsi della genuina definizione di “liberale” espropriata nel tempo da socialisti e progressisti. Nicola Iannello scrive a tal proposito che “il liberalismo oggi ha senso solo se lo si interpreta come libertarismo”. Come a dire che oggi per difendere la libertà – quella vera, legata a doppio filo al diritto naturale e alla proprietà privata – bisogna schierarsi senza tema dalla parte dell’individuo e lottare senza remore contro lo Stato. Ogni esitazione, ogni velleità di pragmatismo e “fallibilismo”, ogni professione di moderatismo non sono che colpevoli cedimenti allo statalismo imperante, e tradiscono i più nobili e puri ideali liberali.

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