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mercoledì 11 marzo 2015

Nessuna nuova dal fronte venezuelano

Di Tommaso Cabrini

Dopo la lunga carenza di carta igienica (oltre che di altri beni di prima necessità), pare che a Caracas si sia presa la decisione di schedare le impronte digitali di chi si reca nei supermarket, in modo da poter attuare meglio il razionamento deciso dal governo.

Il primo fatto impressionante è che un paese ricco di petrolio come il Venezuela sia ridotto letteralmente alla fame. Nessuno stupore per i lettori del nostro blog, d'altro canto come diceva Friedman se il socialismo governasse "il deserto del Sahara, entro quatto anni esaurirebbe la sabbia".
In fondo già quasi un secolo fa Ludwig von Mises ci ha descritto perchè un sistema socialista è inevitabilmente destinato, alla scarsità, alla povertà e, infine, al fallimento.

Secondo fatto, che sempre non stupirà nessuno: la mancanza di libertà economica conduce ad una minore libertà personale. In un sistema socialista, l'unico modo per far andare avanti ancora un po' la barchetta, con lo scafo pieno di buchi, è distruggere la libertà individuale, schedando tutta la popolazione con la (assurda) motivazione di razionare le risorse.

martedì 1 gennaio 2013

Chiedo scusa se parlo di Gaber

di Paolo Amighetti

Dieci anni fa si spegneva Giorgio Gaber. «E allora?» direte voi. E allora vorrei dedicargli otto righe, rispondo io. «Era comunista» obietterete. Touché. Gaber, uomo d'altri tempi, tra gli anni Sessanta e i Settanta riconobbe nella «nuova razza» dei sessantottini slanci e aspirazioni che altrove gli sembravano spenti. Lui, classe 1939, guardava al «movimento» con occhi curiosi; ci finì invischiato. Ne era contento, intendiamoci: ne era tanto entusiasta che si convertì alla musica impegnata, e portò a teatro il tumulto di una generazione che pensava di poter cambiare il mondo. Era la generazione di Autonomia Operaia, di «Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tze Tung», di quelli che «il discorso va portato avanti nella misura in cui»; quelli che leggevano, leggevano Marx. Non ci possono piacere, e infatti noi con il '68 non c'entriamo nulla. Ma può andarci a genio lo spirito quasi quasi «reazionario» di un Gaber che a metà anni Settanta si faceva beffe del Partito Comunista, dileggiava l'intellettualismo della controcultura, scimmiottava la smania psicanalitica e il sogno della comune.

giovedì 27 dicembre 2012

Gramsci e Turati, due idee di sinistra

di Damiano Mondini

Non credo di poter essere sospettabile di simpatie a sinistra. La cultura della gauche, socialista o comunista che sia, mi è quanto mai estranea, senza che la cosa mi turbi eccessivamente. Nondimeno, anche considerando la naturale antipatia che da liberale provo dinnanzi a questo universo culturale e politico, ritengo sia di fondamentale importanza studiarne i caratteri. A mio avviso, infatti, conoscere il nemico, col suo habitus mentale e la sua forma mentis, è indispensabile per rispondere efficacemente alle sue obiezioni, nonché per rendere evidenti i limiti e le mistificazioni intrinseci alla sua speculazione. Il pensiero socialista ci stimola inoltre a tornare sempre con spirito critico sulle nostre convinzioni liberali, anche solo per corroborarne adeguatamente le fondamenta. Infine, non è da escludersi a priori che i modelli pedagogici degli avversari non possano rivelarsi utili, quando declinati in un’ottica politica differente. Vado ad illustrare ciò che intendo.





mercoledì 17 ottobre 2012

Libertà e «istanze sociali»

di Andrea Fenocchio*

Quando poniamo mente ai concetti di liberalismo e di socialismo in genere concordiamo nel considerarli antitetici. Eppure, più di un intellettuale ha creduto non solo ch'essi siano conciliabili ma che addirittura possano essere ritenuti coessenziali. Se tralasciamo il «socialismo liberale» di Carlo Rosselli, il martire antifascista esule in terra francese, il più alto livello di teoresi di una necessità dell'associazione delle idee di socialismo e libertà può senza paura d'errore essere ragionevolmente riconosciuto a Guido Calogero.Il Calogero, al di là di ogni giudizio politico, va considerato come uno dei più alti rappresentanti della cultura italiana: fine e dotto umanista, acuto studioso della filosofia antica (si vedano per esempio i saggi Fondamenti della logica Aristotelica e Studi sull'Eleatismo), si avviò alla filosofia politica sotto l'influenza dei testi crociani e di Gentile di cui fu discepolo e amico e col quale stabilì un proficuo rapporto di scambio intellettuale.



venerdì 5 ottobre 2012

F.A. Hayek: via della schiavitù e via della libertà


di Damiano Mondini


Credo che, dopo un po' di socialismo, la gente riconosca generalmente che è preferibile, per il proprio benessere e relativo status, dipendere dall'esito del gioco del mercato piuttosto che dalla volontà di un superiore al quale si sia assegnati d'autorità.
Friedrich von Hayek

Il socialismo: la via della schiavitù
Nel suo testo divulgativo più importante, The Road to Serfdom (1944), il filosofo ed economista austriaco Friedrich August von Hayek (1899-1992) analizza nel dettaglio il modo in cui il mondo contemporaneo si sta muovendo inesorabilmente verso quella che egli definisce la "via della schiavitù", di cui i totalitarismi, le guerre e le deportazioni di massa sono le manifestazioni più evidenti. La tesi sostenuta nel corso del testo è che la matrice comune dei regimi totalitari, che hanno condotto il mondo sul baratro del secondo conflitto mondiale, vada ricercata nel pensiero socialista. Il socialismo, infatti, se da un lato si ammanta di aneliti di giustizia, libertà e uguaglianza, dall'altro si rivela nel profondo intrinsecamente liberticida. Come Hayek sottolinea, esso nacque tirannico, e fu solo nel corso del XIX secolo che si contaminò di ideali democratici che tuttavia non ne snaturarono la recondita natura dittatoriale, che del resto le varie forme di "socialismo reale" non hanno mancato di far riaffiorare. Che il socialismo, l'ideale egualitario sorto formalmente a difesa dei diritti dei più deboli e per la risoluzione della "questione sociale", fosse fin dall'inizio di natura illiberale, può apparire una tesi forte: tuttavia, essa viene affermata con forza da Hayek.
Oggi di rado ci si rammenta che il socialismo, ai suoi inizi, fu chiaramente autoritario. Gli scrittori francesi che posero le basi del socialismo moderno non avevano alcun dubbio che le loro idee potevano venir messe in pratica soltanto da un forte governo dittatoriale. Per loro, il socialismo significava un tentativo di "portare a termine la rivoluzione" per mezzo di una intenzionale riorganizzazione della società progettata su basi gerarchiche e ad opera dell'imposizione di un "potere spirituale" coercitivo. Per quel che concerneva la libertà, i fondatori del socialismo non nascosero affatto le loro intenzioni. Essi vedevano nella libertà di pensiero il peccato originale della società del diciannovesimo secolo; e il primo dei moderni pianificatori, Saint- Simon, annunciava addirittura che quanti non avessero ubbidito ai comitati per la pianificazione da lui proposti sarebbero stati "trattati come bestiame".

mercoledì 3 ottobre 2012

2+2=5

di Paolo Amighetti


Per un abitante di Oceania, la fede nel Grande Fratello deve essere più forte di ogni scrupolo affettivo e di qualsiasi considerazione logica. I teleschermi, oltre a riprendere la vita dei cittadini, ne scandiscono i ritmi con musiche patriottiche ed inni alla grandezza del Grande Fratello. Spesso una metallica voce femminile elenca con compiacimento le cifre della produzione, sempre più elevate, ed esalta il costante miglioramento delle condizioni di vita sotto l'illuminata guida del capo. Le statue del dittatore, che nessun membro del partito esterno e nessun prolet ha mai visto in carne e ossa, riempiono le piazze in memoria di eccezionali vittorie militari. Tale culto della personalità fa del Grande Fratello una figura paterna ed amorevole per la stragrande maggioranza dei cittadini: nel volto stampato sui manifesti e sulle monete milioni di sudditi indottrinati vedono un sorriso malcelato e benevolo, e occhi saggi e premurosi.

Si concretizza così il paradosso terribile della sincera adorazione del tiranno da parte degli oppressi, che non è certo un'esclusiva del dittatore orwelliano. Stalin, al quale la propaganda sovietica attribuiva gesta che egli non aveva mai compiuto, venne pianto dal popolo quando calò nella tomba nel marzo 1953; i nordcoreani hanno un amore sconfinato per i vecchi leader Kim Il-Sung e Kim Jong-Il, e venerano allo stesso modo Kim Jong Un; Mao Tze Tung, le cui frasi figuravano su ogni libro stampato in Cina, era adorato in maniera analoga.

martedì 2 ottobre 2012

Liberalismo e socialismo: libertà e schiavitù

di Damiano Mondini
E’ sufficiente avere un minimo di dimestichezza con il pensiero socialista – nelle sue varie e variopinte manifestazioni – per accorgersi di quanto quelle posizioni che osteggiano la società libera e aperta derivino in ultima istanza da determinati assunti epistemologici. L’illusione di trasformare la società in un mondo più giusto ed equo, rivoluzionandola dalle fondamenta nel tentativo di pervenire ad una “giustizia sociale”, si fonda senz’altro su una tragica incomprensione dei capisaldi della civiltà stessa. Ne consegue, come la storia non ha mancato di testimoniare, che le diverse realizzazioni dell’utopia socialista e del suo sogno di uguaglianza siano destinate a tradursi in un incubi drammatici per le sorti dello stesso mondo civilizzato. Nondimeno, il socialismo ha potuto prosperare sfruttando un apparente difetto dell’impianto teorico del liberalismo: il suo essere inevitabilmente asintotico, la sua impossibilità di delineare un modello definitivo da porre in essere, oltre che delle valide strategie per concretizzarlo [1]. Il pensiero liberale, quello autentico, non ha mai sognato di compiere un rivolgimento dell’ordine sociale, coll’obiettivo di pervenire ad una situazione di perfetto equilibrio stazionario. I liberali, quelli veri, non hanno mai promesso di realizzare un Paradiso terrestre, un Eden di pace, uguaglianza, fraternità, solidarietà e giustizia sociale. Invero, non hanno mai promesso null’altro che di rendere gli individui più liberi, autonomi, indipendenti e padroni di se stessi. Da ciò deriva la nota accusa di “formalismo” rivolta loro dagli intellettuali socialisti, i quali invece prospettano di rendere l’uguaglianza fra gli uomini sostanziale, dunque non solo civile e giuridica, ma anche economica e sociale. Nelle deliziose fantasie Noise from Tea Party, dei socialisti la società perfetta – immancabilmente quella sognata dalla medesima intellighenzia socialista – è dipinta coi colori dell’armonia, della cooperazione fra uomini, dell’amore fraterno, della vita comunitaria, dell’umanitarismo, dell’altruismo e dell’assenza di disparità socio-economiche. E’ difficile resistere all’inebriante progetto prospettato dal socialismo, che infatti ha ammaliato  generazioni di lavoratori, intellettuali, artisti, personaggi noti e uomini della strada. Quasi nessuno ha avuto una forza d’animo tale da non cadere nella tentazione socialista, e questo grazie anche alla propaganda intellettuale che l’ha spalleggiata. La dicotomia fra liberali e socialisti viene infatti sovente prospettata in questi termini: i primi, più elitari, lottarono per il raggiungimento di una eguaglianza puramente formale fra gli individui, per una libertà intesa soltanto ex negativo come assenza di coercizione; i secondi, nascendo dal cuore delle masse, hanno invece preteso di sostanziare l’eguaglianza abolendo le distinzioni economiche frutto di perverse storture sociali, implementando così una libertà positiva che consenta a ciascuno di vivere una vita dignitosa [2].