Visualizzazione post con etichetta John Locke. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta John Locke. Mostra tutti i post

martedì 12 marzo 2013

Cattolici per il capitalismo (parte seconda)

di Damiano Mondini

Un capitalismo cattolico: prospettive di studio
I primi a rilevare incongruenze nella ricostruzione weberiana furono gli storici; essi si limitarono a constatare un dato, di per se ovvio ma fondamentale, noto allo stesso Weber ma da questi stranamente reputato secondario: ovverossia che forme di capitalismo mercantile si erano sviluppate nelle città libere italiane già nel Tardo Medioevo, ed erano attecchite anche in altre aree tipicamente cattoliche come il Belgio e la Bassa Renania. E tutto ciò ben prima  che Lutero affiggesse le sue 95 Tesi sulla Cattedrale di Wittemberg. Come ha scritto Luciano Pellicani, riprendendo uno spunto del grande sociologo francese Raymond Boudon:
sia il capitalismo che lo spirito capitalistico precedono, e di secoli, la Riforma. Basterebbe ciò per invalidare la complessa costruzione weberiana, dal momento che un fenomeno non può essere assunto come una delle cause di un altro fenomeno se questo è successivo.

Weber non solo aveva rischiato di cadere nella banalità per cui post hoc ergo propter hoc – prima era venuta la Riforma poi il capitalismo industriale, dunque la prima aveva causato il secondo. Aveva finanche falsato i termini del sillogismo: un evento successivo non può dirsi causa di un fenomeno ad esso precedente. E non si pensi che il capitalismo pre-Riforma fosse una realtà minoritaria e di scarsa importanza, come sembra volerlo considerare il sociologo tedesco: basti pensare alla straordinaria importanza dei Fugger ad Augusta e di Jacques Coeur in Francia. Furono figure imprenditoriali notevoli, che con i loro investimenti di capitali contribuirono a mettere in crisi i monopoli feudali legati alle regolamentazione delle arti e dei mestieri. Nel pieno solco della tradizione cattolica essi superarono il pregiudizio medievale legato alla nota sentenza di Girolamo, il quale con tali parole si era riferito alla figura del mercante: homo mercator vix aut numquam potest Deo placere.

domenica 10 marzo 2013

Cattolici per il capitalismo (parte prima)

di Damiano Mondini

E’ un luogo comune diffuso quello secondo il quale il pensiero cristiano – e segnatamente quello cattolico – dovrebbe porsi inevitabilmente in contrasto con l’economia di mercato, e per il quale d’altro canto il messaggio evangelico presenterebbe numerosi punti di contatto con le sollecitazioni socialiste. I riferimenti in questi senso sono molteplici, essendosi ormai accumulati due secoli di interpretazioni gauchistes del Vangelo: da Le nouveau christianisme del conte di Saint-Simon (1825), alle esperienze dei “Cristiani per il socialismo” e della “Teologia della Liberazione” nel Sud America degli anni Settanta, alle figure del cattolicesimo democratico italiano – basti menzionare Giuseppe Dossetti e Amintore Fanfani. Fautori e detrattori del capitalismo di mercato sembrano ormai concordare su di un punto, ovverossia che “il Vangelo è socialista” : il buon cristiano dovrebbe dunque guardare con sospetto ai “gran sabba degli istinti capitalistici” e propendere per una loro ferrea regolamentazione in chiave redistributiva e solidaristica; d’altra parte, i sostenitori del libero mercato e della libera iniziativa privata dovrebbero fuggire le superstizioni religiose del cristianesimo, considerandole l’ennesima riproposizione del ben noto e odiato spirito anticapitalistico. Ciò premesso, ci riproponiamo in questa sede di avanzare delle critiche a questi leit motiv – osservazioni che naturalmente non pretendono di essere definitive, né tanto meno di esaurire un dibattito accesso e tutt’altro che concluso a livello accademico. Saranno sufficienti alcune evidenze fattuali, cui accenniamo ora e che andremo poi a sviluppare, a far sospettare che dietro la semplice impostazione suddetta vi siano quanto meno delle linee di faglia.

mercoledì 27 febbraio 2013

Il vero Lincoln e le bugie di Spielberg (parte seconda)

di Damiano Mondini


The real Lincoln: l’ Unione über alles
Nel marzo del 1850, a pochi giorni dalla propria morte, il grande statista e pensatore del South Carolina John C. Calhoun scriveva quanto segue ad un amico:
L’Unione è destinata ad essere dissolta, i segnali sono evidenti. […] [Non è più possibile] evitare, o concretamente posporre, la catastrofe. Plausibilmente mi aspetto che ciò accada entro dodici anni o tre mandati presidenziali. […] Il modo in cui succederà non è così chiaro, […] ma con ogni probabilità la detonazione avverrà nel corso di una elezione presidenziale.

lunedì 22 ottobre 2012

L'annosa questione del valore: la controrivoluzione classica

di Damiano Mondini


Una rinascita tomista. Accanto all’avanzata elaborazione di Olivi, nel Medioevo era stato tuttavia presente un indirizzo teorico volto alla ricerca del cosiddetto “giusto prezzo”, determinato esclusivamente dai costi di produzione del bene. Un netto superamento di questa teoria – una variante della quale darà in seguito il alla teoria del valore-lavoro – si trova nella speculazione della Scuola di Salamanca (XVII secolo), e in modo particolare nel pensiero del domenicano Doctor Navarrus e del gesuita Luis de Molina. Navarrus, interessato agli effetti dell’arrivo di metalli preziosi dalle Americhe, rileva come nei paesi dove il metallo è scarso il prezzo sia più elevato rispetto a dove esso è più abbondante. Ne deduce correttamente che parte del valore del metallo prezioso derivi di necessità dal suo grado più o meno elevato di scarsità; su queste basi fonderà una embrionale teoria quantitativa della moneta, ma questo esula dal nostro excursus sul valore. De Molina ha il merito di aver trattato diffusamente una teoria soggettiva del valore e del prezzo, sostenendo che l’utilità di un bene varia da persona a persona, e che dunque il “giusto prezzo” viene determinato dalle interazioni commerciali, al netto delle distorsioni monopolistiche, delle violazioni di proprietà e degli interventi governativi. Se pure è vero che la Scuola di Salamanca non ha poi sviluppato queste intuizioni in modo sistematico, le va riconosciuto il merito di aver ampiamente anticipato, e non solo in questo ambito, alcune delle principali conclusioni della Scuola Austriaca.

sabato 6 ottobre 2012

Per un indipendentismo liberale e libertario

di Paolo Amighetti

Negli anni Novanta l'Italia fu scossa da due gravi terremoti che sconvolsero la scena politica: lo scandalo di Tangentopoli, che segnò la caduta fragorosa del sistema partitocratico della «prima repubblica», e l'avanzata, costante ed inarrestabile, del fenomeno leghista. 
Tra il 1989 e il 1994, tutti i nodi parevano ormai venuti al pettine: si dissolvevano sia l'ordine mondiale bipolare della guerra fredda, sia il sistema partitico italiano che aveva retto le sorti della repubblica per quasi cinquant'anni. Il crollo del muro di Berlino e lo scioglimento dell'URSS decretavano la scomparsa del socialismo reale, e una moltitudine di nuovi Stati dichiarava la propria indipendenza da Mosca.

La Cecoslovacchia si scindeva pacificamente per fare spazio alla Repubblica Ceca e alla Slovacchia; la stessa Jugoslavia, spossata dalle spinte centrifughe delle ex-repubbliche federative, crollava su se stessa e scivolava in una spirale di violenza. Tutti questi eventi impressionarono molto gli osservatori e gli studiosi, e Gianfranco Miglio in particolare: secondo il costituzionalista comasco, la fine della guerra fredda coincideva con una svolta ben più profonda e significativa, e cioè con il tramonto dello Stato moderno.

«Quello che è accaduto alla fine del secolo, il nostro '89, è paragonabile per portata ed importanza soltanto al 1789; [...] è un evento di portata storica eccezionale. Due sono gli sviluppi: c'è la caduta di una certa concezione dello Stato, [...] il crollo dei regimi comunisti ha significato la dissoluzione di una concezione dello Stato che era cominciata con la rivoluzione del 1789; l'altro sviluppo è legato alla fine dello Stato omogeneizzante, unitario, sovrano, eterno nel tempo, che ha il diritto di ridurre tutti all'omogeneità, perché questo concetto va in liquidazione. Ed ecco l'emergere dei particolarismi.» [1]

Ed ecco, cioè, l'emergere delle «piccole patrie» nell'Europa continentale e del regionalismo leghista nell'Italia settentrionale. Miglio riteneva che la fase «ad alta intensità politica» del dopoguerra, dominata dall'ideologia, si fosse ormai esaurita per lasciar spazio ad un'epoca in cui avrebbero prevalso i rapporti contrattuali tra privati e comunità ristrette; d'altronde la rivoluzione tecnologica, l'avvento dei computer, di internet e il processo di globalizzazione sembravano dare ragione a chi sosteneva che i confini, i decreti, insomma i vincoli di Stato fossero inadeguati ai tempi. Così il profesùr decise di appoggiare il movimento di Bossi, che sembrava deciso a riformare radicalmente il sistema. Peraltro la Lega, che era estranea al regime partitocratico, poteva trarre vantaggio dal disfacimento della «prima repubblica»; e non è un caso che Bossi abbia soffiato a lungo sul fuoco dell'indignazione popolare, e che in un primo tempo molti lo abbiano votato soprattutto per castigare i vecchi partiti di governo.

La Lega, movimento di protesta, propugnava una vera rivoluzione: nel clima tutto particolare dei primi anni Novanta, infatti, introdusse nel dibattito politico i temi del federalismo, condannando la redistribuzione della ricchezza; anche per questo strati sempre più consistenti della borghesia settentrionale davano il proprio consenso al movimento nordista. Dopo la rottura con Miglio e la prima esperienza di governo, terminata con il celebre «ribaltone», Bossi diede il via alla campagna per «l'indipendenza della Padania»: alle elezioni del 1996 il movimento si presentò quale alternativa ai due schieramenti di centrodestra e centrosinistra, conquistando il più alto numero di voti nella sua storia: 4.038.239. [2]

Alle parole e ai numeri non seguirono i fatti, e qualche anno dopo la Lega, abbandonata l'«avventura» separatista, tornava dalla parte di Berlusconi. Gli indipendentisti si trovarono dinanzi ad un bivio: rinnegare la secessione per seguire le manovre strategiche del capo, o abbandonare il movimento per cercar fortuna altrove?