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venerdì 20 marzo 2015

La produzione indiretta

traduzione di Tommaso Cabrini

(Da Kapital und Produktion di Richard von Strigl Cap.1)



Il lavoro può essere utilizzato in produzioni il cui obiettivo è il prodotto finito. Un buon esempio, citato ripetutamente sin dai tempi di Wilhelm Roscher, è la nazione di pescatori che impiegano direttamente il loro lavoro allo scopo di catturare pesci. Questo lavoro raggiungerà un livello più alto di produttività se i pescatori fossero in grado di produrre una barca e l’attrezzatura da pesca. In questo caso, il lavoro deve prima essere utilizzato allo scopo di realizzare questi “prodotti fattori di produzione”, ma la ricompensa per questo impiego sarà un accrescimento della resa. L’epicentro di questo processo è stato individuato (Jevons e Bohm-Bawerk) nella combinazione tra lavoro e frutti della natura (risorse naturali), che vengono convogliati in un metodo di produzione indiretto, che richiede tempo per essere portato a termine.

Nel nostro esempio, i pescatori affrontano la sfida di incrementare la produzione. Questo incremento può essere raggiunto impiegando più lavoratori: se la popolazione aumenta ci si può aspettare che (data una sufficiente popolazione ittica) l’incremento delle braccia a disposizione porti anche un maggiore pescato. Comunque, nello scegliere un metodo di produzione indiretto ci stiamo occupando di un altro modo di incrementare la produzione, mantenendo il numero di lavoratori immutato. Il lavoro ora non viene più utilizzato direttamente per la produzione immediata, allo scopo di ottenere un prodotto finito, viene invece reindirizzato ad un metodo di produzione indiretto. Il lavoro viene prima usato per realizzare i fattori di produzione, poi con l’aiuto di quest’ultimi, e di lavoro addizionale, si otterrà il prodotto finito. Sebbene questo metodo di produzione porti ad un incremento dei frutti rispetto alla produzione immediata, sarà necessario far trascorrere un periodo di tempo più lungo tra l’impiego iniziale di lavoro e l’ottenimento definitivo del prodotto finito. Non solo ai giorni nostri, ma fin da quando l’uomo è emerso dalla primitiva civilizzazione, praticamente ogni processo produttivo è stato eseguito utilizzando un metodo indiretto; difficilmente qualunque cosa gli uomini mangino o utilizzino avrebbe potuto essere ottenuta senza metodi di produzione indiretti.

venerdì 6 marzo 2015

I fattori di produzione


Introduzione di Tommaso Cabrini

Richard von Strigl è stato uno dei più importanti economisti austriaci del periodo interbellico. Pur essendo pressochè sconosciuto in Italia, è stato un personaggio fondamentale nella storia economica viennese. Al suo funerare Friedrich Hayek disse: “con la sua morte scompare la figura nella quale le speranze di preservare la tradizione di Vienna, come centro di insegnamento economico e futura rinascita della ‘Scuola Austriaca’, sono state a lungo riposte.

Con un po’ di ricerca e di lavoro di traduzione vi propongo qualche capitolo del libro più influente di von Strigl “Kapital und Produktion”, un sapiente lavoro nel quale ha saputo coniugare la teoria della produzione di Eugen von Böhm-Bawerk con la teoria del ciclo economico di Ludwig von Mises.



domenica 17 marzo 2013

San Francesco? Ha inventato il capitalismo!

di Damiano Mondini

L’elezione al soglio pontificio dell’argentino Jorge Mario Bergoglio, divenuto Vicario di Cristo col nome di Francesco, ripropone la discussione sulla figura di San Francesco d’Assisi (1182-1226) e sull’Ordine francescano da questi fondato nel 1209. Ed ecco che – puntuali ed immancabili – vengono ripetute le solite banalità sul presunto pensiero del Santo di Assisi come connotato da velleità pauperiste: egli viene così contrapposto agli eccessi “plutocratici” della Chiesa moderna e contemporanea. “Il richiamo a Francesco – sostengono parimenti esponenti del cattolicesimo progressista e dell’intellighenzia laicista – è un monito a questa Chiesa corrotta, affinché abbandoni il fascino demoniaco del denaro, si spogli delle proprie nefaste influenze temporali e torni ad una religione privata e vicina ai poveri, agli umili, ai deboli, ai dimenticati”. Non ci è dato di sapere quale impronta darà il nuovo Pontefice alla Chiesa di Roma; possiamo nondimeno evidenziare con chiarezza la falsità di questi leit-motiv reiterati con ardore dalla stampa liberal e dai commentatori cattocomunisti. Perché San Francesco, lungi dall’essere il seguace di un pauperismo dalle tendenze vagamente anticlericali e di un socialismo ante litteram, ha in realtà inventato il capitalismo.

martedì 12 marzo 2013

Cattolici per il capitalismo (parte seconda)

di Damiano Mondini

Un capitalismo cattolico: prospettive di studio
I primi a rilevare incongruenze nella ricostruzione weberiana furono gli storici; essi si limitarono a constatare un dato, di per se ovvio ma fondamentale, noto allo stesso Weber ma da questi stranamente reputato secondario: ovverossia che forme di capitalismo mercantile si erano sviluppate nelle città libere italiane già nel Tardo Medioevo, ed erano attecchite anche in altre aree tipicamente cattoliche come il Belgio e la Bassa Renania. E tutto ciò ben prima  che Lutero affiggesse le sue 95 Tesi sulla Cattedrale di Wittemberg. Come ha scritto Luciano Pellicani, riprendendo uno spunto del grande sociologo francese Raymond Boudon:
sia il capitalismo che lo spirito capitalistico precedono, e di secoli, la Riforma. Basterebbe ciò per invalidare la complessa costruzione weberiana, dal momento che un fenomeno non può essere assunto come una delle cause di un altro fenomeno se questo è successivo.

Weber non solo aveva rischiato di cadere nella banalità per cui post hoc ergo propter hoc – prima era venuta la Riforma poi il capitalismo industriale, dunque la prima aveva causato il secondo. Aveva finanche falsato i termini del sillogismo: un evento successivo non può dirsi causa di un fenomeno ad esso precedente. E non si pensi che il capitalismo pre-Riforma fosse una realtà minoritaria e di scarsa importanza, come sembra volerlo considerare il sociologo tedesco: basti pensare alla straordinaria importanza dei Fugger ad Augusta e di Jacques Coeur in Francia. Furono figure imprenditoriali notevoli, che con i loro investimenti di capitali contribuirono a mettere in crisi i monopoli feudali legati alle regolamentazione delle arti e dei mestieri. Nel pieno solco della tradizione cattolica essi superarono il pregiudizio medievale legato alla nota sentenza di Girolamo, il quale con tali parole si era riferito alla figura del mercante: homo mercator vix aut numquam potest Deo placere.

domenica 10 marzo 2013

Cattolici per il capitalismo (parte prima)

di Damiano Mondini

E’ un luogo comune diffuso quello secondo il quale il pensiero cristiano – e segnatamente quello cattolico – dovrebbe porsi inevitabilmente in contrasto con l’economia di mercato, e per il quale d’altro canto il messaggio evangelico presenterebbe numerosi punti di contatto con le sollecitazioni socialiste. I riferimenti in questi senso sono molteplici, essendosi ormai accumulati due secoli di interpretazioni gauchistes del Vangelo: da Le nouveau christianisme del conte di Saint-Simon (1825), alle esperienze dei “Cristiani per il socialismo” e della “Teologia della Liberazione” nel Sud America degli anni Settanta, alle figure del cattolicesimo democratico italiano – basti menzionare Giuseppe Dossetti e Amintore Fanfani. Fautori e detrattori del capitalismo di mercato sembrano ormai concordare su di un punto, ovverossia che “il Vangelo è socialista” : il buon cristiano dovrebbe dunque guardare con sospetto ai “gran sabba degli istinti capitalistici” e propendere per una loro ferrea regolamentazione in chiave redistributiva e solidaristica; d’altra parte, i sostenitori del libero mercato e della libera iniziativa privata dovrebbero fuggire le superstizioni religiose del cristianesimo, considerandole l’ennesima riproposizione del ben noto e odiato spirito anticapitalistico. Ciò premesso, ci riproponiamo in questa sede di avanzare delle critiche a questi leit motiv – osservazioni che naturalmente non pretendono di essere definitive, né tanto meno di esaurire un dibattito accesso e tutt’altro che concluso a livello accademico. Saranno sufficienti alcune evidenze fattuali, cui accenniamo ora e che andremo poi a sviluppare, a far sospettare che dietro la semplice impostazione suddetta vi siano quanto meno delle linee di faglia.

venerdì 14 dicembre 2012

La filantropia del profitto


Di Stephen J. Dubner e Steven D. Levitt (traduzione e premessa di Tommaso Cabrini)


Da studenti (non pretendiamo di essere denominati nemmeno studiosi) di economia austriaca non ci interessa studiare con grandi formule matematiche l’economia nel suo complesso, azione che non si rivelerebbe altro che una pretesa di conoscenza.
Per questo mi è sembrato interessante proporre un articolo, scritto dagli autori dei libri Freakonomics e SuperFreakonomics, che studia l’azione umana, riducendo al minimo le presunzioni e focalizzandosi sulle scelte dei singoli individui. Con questo pezzo non si intende fare nulla di più che uno spaccato di un settore molto particolare, il no profit.
Naturalmente, come è loro solito, Dubner e Levitt non approcciano in modo tradizionale e banale il problema ma osservano come i metodi tradizionali non si rivelino sempre i migliori.
In particolare in questo articolo viene mostrata l’importanza della concorrenza come motore di sviluppo dell’innovazione. Tramite la concorrenza si possono non solo sviluppare modi diversi per approcciare ad un problema ma anche avere risposte su quali modalità risultino più efficienti e più efficaci.
Altro tema importante sono gli incentivi: le persone rispondono agli incentivi ed agiscono di conseguenza, se gli stimoli che si offrono sono sbagliati o mal calibrati i frutti non arriveranno, oppure saranno risultati opposti a quelli voluti.
Il concetto più importante però compare perfino nel titolo; il profitto, viene ripetuto in Italia, è una cosa quasi sempre negativa, che non porta alcun bene alla società nel suo complesso, al massimo (come sostiene anche la costituzione) può essere distruttivo del “utilità sociale”. Ora tramite lo scritto di Levitt e Dubner il profitto assume una valenza totalmente diversa, la sua vera valenza, cioè di incentivo ad agire e di conferma di raggiungimento dei risultati prefissati.
Naturalmente parliamo di esempi rigorosamente privati, qui il profitto privato è l’incentivo ad agire filantropicamente, in concorrenza con altre organizzazioni che si pongono gli stessi fini ma con mezzi e strutture differenti, dove l’utile (la bottom-line del titolo originale) rappresenta chi ha successo nel raggiungere gli scopi.
In futuro ho intenzione di proporre altre traduzioni degli stessi autori, spero quindi risulti interessante quanto presentato oggi.

giovedì 22 novembre 2012

Libero mercato: lavorare “meno” per avere sempre “di più”!

di Miki Biasi

Il motto del titolo è uno di quelli che, di rado, si sente pronunciare a sostegno di un sistema di libero scambio basato sulla proprietà privata.
Infatti, pare che se le risorse fossero a disposizione di tutti (maledetta proprietà privata!), magicamente, ognuno si vedrebbe recapitare a casa propria i beni di cui ha bisogno (i beni che desidera).
Bellissimo, d’accordo. Ma come dovrebbe avvenire tutto ciò?
A sentire alcuni, ciascuno dovrebbe produrre per sè ciò che gli serve, avendo ormai a disposizione tutto il necessario; a sentire altri, dovrebbero sorgere piccole comunità locali in grado di produrre direttamente quanto i propri componenti desiderano; a sentire altri ancora, un governo democraticamente eletto dovrebbe adoperarsi per produrre ciò di cui ciascun cittadino necessita.

Benissimo! Cosa aspettiamo ad entrare in questo fantastico mondo? Viva la rivoluzione contro i capitalisti sfruttatori di manodopera! Abbasso la proprietà privata! nota 1
Ok..ehm..si..un momento..un po’ di calma, cari rivoluzionari. Proviamo a guardare oltre la superficie del sistema che più disprezzate.

giovedì 8 novembre 2012

Pensieri ferroviari sulle libertà civili

di Miki Biasi

Il treno è uno di quei mezzi di trasporto che lascia un po’ di tempo per riflettere: non sempre i miei pensieri arrivano a un punto fermo (solitamente, sul più bello, sento l’annuncio di arrivo a destinazione), ma questa mattina qualcosa (pur se banale) sono riuscito a concludere. Pensavo a quella bella storiella che si legge e sente un po’ dovunque: i liberali e i progressisti (c.d. liberal), nel campo delle libertà civili (matrimonio omosessuale, liberalizzazione delle droghe, libertà di associazione, religione ecc), hanno gli stessi obiettivi e quindi dovrebbero agire insieme per raggiungerli.

La premessa di questa storiella è la famosa distinzione tra libertà civili e libertà economica. Se con le prime (le libertà civili) ci riferiamo agli esempi fatti al paragrafo precedente, con la seconda (la libertà economica) ci riferiamo alla “libertà di scegliere quali fini perseguire con i mezzi di cui si è proprietari, sopportando, in prima persona, i costi della propria scelta”.

mercoledì 7 novembre 2012

Spazio ai privati!

di Tommaso Cabrini

Inizialmente la conquista dello Spazio era appannaggio statale. Il primo razzo ad andare nello Spazio fu un V2 modificato, costruito dalla Germania nazista e lanciato dagli Stati Uniti. Alla corsa allo Spazio si è aggiunta l’Unione Sovietica che ha lanciato il primo satellite artificiale, lo Sputnik, e il primo uomo, Yurij Gagarin.
Nel 1969 gli Stati Uniti sbarcarono sulla Luna, dopodiché fu un continuo lancio di satelliti spia, stazioni spaziali e Space Shuttle. Il comune denominatore era uno soltanto, tutto era gestito da agenzie pubbliche.
Ma oggi racconterò una storia diversa da quella delle agenzie americane o del programma spaziale sovietico: tutto cominciò nel luglio del 1962 quando da Cape Canaveral partì un razzo della NASA con un carico molto particolare, si chiamava Telstar ed era il primo satellite privato lanciato nello Spazio.

venerdì 5 ottobre 2012

F.A. Hayek: via della schiavitù e via della libertà


di Damiano Mondini


Credo che, dopo un po' di socialismo, la gente riconosca generalmente che è preferibile, per il proprio benessere e relativo status, dipendere dall'esito del gioco del mercato piuttosto che dalla volontà di un superiore al quale si sia assegnati d'autorità.
Friedrich von Hayek

Il socialismo: la via della schiavitù
Nel suo testo divulgativo più importante, The Road to Serfdom (1944), il filosofo ed economista austriaco Friedrich August von Hayek (1899-1992) analizza nel dettaglio il modo in cui il mondo contemporaneo si sta muovendo inesorabilmente verso quella che egli definisce la "via della schiavitù", di cui i totalitarismi, le guerre e le deportazioni di massa sono le manifestazioni più evidenti. La tesi sostenuta nel corso del testo è che la matrice comune dei regimi totalitari, che hanno condotto il mondo sul baratro del secondo conflitto mondiale, vada ricercata nel pensiero socialista. Il socialismo, infatti, se da un lato si ammanta di aneliti di giustizia, libertà e uguaglianza, dall'altro si rivela nel profondo intrinsecamente liberticida. Come Hayek sottolinea, esso nacque tirannico, e fu solo nel corso del XIX secolo che si contaminò di ideali democratici che tuttavia non ne snaturarono la recondita natura dittatoriale, che del resto le varie forme di "socialismo reale" non hanno mancato di far riaffiorare. Che il socialismo, l'ideale egualitario sorto formalmente a difesa dei diritti dei più deboli e per la risoluzione della "questione sociale", fosse fin dall'inizio di natura illiberale, può apparire una tesi forte: tuttavia, essa viene affermata con forza da Hayek.
Oggi di rado ci si rammenta che il socialismo, ai suoi inizi, fu chiaramente autoritario. Gli scrittori francesi che posero le basi del socialismo moderno non avevano alcun dubbio che le loro idee potevano venir messe in pratica soltanto da un forte governo dittatoriale. Per loro, il socialismo significava un tentativo di "portare a termine la rivoluzione" per mezzo di una intenzionale riorganizzazione della società progettata su basi gerarchiche e ad opera dell'imposizione di un "potere spirituale" coercitivo. Per quel che concerneva la libertà, i fondatori del socialismo non nascosero affatto le loro intenzioni. Essi vedevano nella libertà di pensiero il peccato originale della società del diciannovesimo secolo; e il primo dei moderni pianificatori, Saint- Simon, annunciava addirittura che quanti non avessero ubbidito ai comitati per la pianificazione da lui proposti sarebbero stati "trattati come bestiame".

domenica 2 settembre 2012

Quando il capitalismo si fa piccolo: crowdfunding

di Tommaso Cabrini

Un tempo il capitalismo era un affare per ricchi, fondare un’azienda ha sempre richiesto grandi capitali e l’innovazione finanziaria ha cercato di andare incontro agli imprenditori cercando metodi più facili di trovare denaro. Tornando indietro di qualche secolo l’imprenditore poteva contare solamente su quanto investito dalla propria famiglia o sul prestito di qualche grande banchiere.

Progressivamente si è allargato sempre più il mercato dei capitali, dando la possibilità a un maggior numero di persone di partecipare, prestando denaro o investendolo direttamente nelle aziende. Ciò è avvenuto attraverso una grande intuizione: anziché chiedere un grande finanziamento si chiede a tanti finanziatori una cifra più piccola facendo nascere così le azioni e le obbligazioni.

Se con la riforma pensionistica tutti i cileni sono diventati capitalisti, e quindi interessati al prosperare della propria economia e alla pace sociale, così è avvenuto con la diffusione nel nord America e in nord Europa della proprietà di azioni e obbligazioni emesse dalle aziende[1].

Oggi per possedere un’azione bastano pochi euro, ma parecchi costi aggiuntivi, come le commissioni e il bollo sul conto titoli rendono necessario comprare pacchetti nell’ordine di almeno un paio di migliaia di euro per rendere l’investimento potenzialmente profittevole. In fondo non tutti sono disposti a concentrare una tale cifra in un unico investimento.

Ma nel frattempo è stato fatto un ulteriore passo in avanti: internet, che permette la distribuzione di servizi ad un prezzo ridottissimo. Ecco dunque la possibilità di ridurre ulteriormente la dimensione dei pacchetti, fino ad arrivare a pochi spiccioli: il crowdfunding.

Crowdfunding (composto dalla parola crowd, folla e funding finanziamento) consiste nel raccogliere fondi destinati a specifici progetti da moltissime persone che partecipano per piccole cifre (solitamente meno di un centinaio di euro).

I vantaggi sono divisi tra i tre attori in gioco, i prestatori di capitale possono ottenere ritorni maggiori rispetto ai canali tradizionali, i prenditori di capitale possono ottenere denaro da una diversa fonte di finanziamento sostenendo costi minori, infine l’intermediario, mantenendo strutture leggere e dematerializzate (tutto si svolge su internet) può offrire il servizio a costi bassi ottenendo un profitto nonostante le basse commissioni.

Non esiste una forma standard di crowdfunding, si può trattare della raccolta di capitale azionario per una start up, del prestito ad una famiglia che deve ristrutturare casa, ma anche raccolta di denaro destinato a finanziare progetti no-profit, il finanziamento di una mostra o la campagna elettorale di Ron Paul.

Ad esempio il sito 33needs.com ha finanziato la nascita di Half United, una società di abbigliamento che fornisce un pasto agli affamati per ogni acquisto.

Kickstarter finanzia progetti innovativi e creativi (cinema, editoria, alta tecnologia). nel 2011 ha, con successo, finanziato più di undicimila progetti per un totale di quasi cento milioni di dollari.

Per restare in Italia ci sono anche Kapipal (simile a Kickstarter) e Zopa (che permette di prestare o chiedere in prestito denaro ad interesse).

La speranza è che in futuro il crowdfunding trasformi tutti in piccoli capitalisti, orgogliosi di essere tali e che permetta anche a quelle “categorie” più in difficoltà (come i giovani, le donne e gli esodati) di poter realizzare un’idea nella quale poter continuare a credere. Un sistema alternativo di accesso al credito, più sicuro e personalizzato, capace di andare incontro alle esigenze di tutte le parti in gioco, riducendo le distanze tra i tassi d’interesse richiesti dalle banche ai propri clienti e capace di diventare un’idea di business in tre direzioni. Io un pensierino ce lo farei!



[1] In Italia storicamente questo non è avvenuto perché lo Stato è stato il finanziatore della grande impresa, di conseguenza la concentrazione del capitale è nata per decisione politica e non tramite l’aggregazione dovuta alle banche o alla borsa.