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mercoledì 26 marzo 2014

Le alternative all'inganno del "Contratto Sociale", città e strade private [Seconda Parte]

link alla Prima Partehttp://roadliberty.blogspot.it/2014/03/le-alternative-allinganno-del-contratto.html

Le Turnpike e le Strade a Pedaggio negli Stati Uniti del Diciannovesimo Secolo.  

Daniel B. Klein, Santa Clara University e John Majewski, University of California – Santa Barbara   

Traduzione di Tommaso Cabrini



Le turnpike sono aziende commerciali private che costruivano e mantenevano una strada a fronte del diritto di riscuotere una tariffa dai viaggiatori[1]. I resoconti della rivoluzione dei trasporti del diciannovesimo secolo trattano spesso le turnpike come un semplice preludio ad infrastrutture più importanti, come canali e ferrovie. Le turnpike, invece, lasciarono un’importante impronta sociale e politica nelle comunità che ne supportarono la nascita. Nonostante le turnpike raramente abbiano distribuito dividendi o altre forme di profitti diretti, riuscirono comunque ad attrarre sufficienti capitali da migliorare sia l’estensione che la qualità della rete stradale degli Stati Uniti. 

La costruzione di strade private si sviluppò ad ondate che attraversarono tutto il diciannovesimo secolo e l’intera nazione, con un numero totale compreso tra 2.500 e 3.200 società che riuscirono con successo a finanziare, costruire e mantenere in funzione le loro strade a pedaggio. In particolare ci furono tre importanti periodi nell’era della costruzione delle strade a pedaggio: il periodo delle turnpike degli stati orientali dal 1792 al 1845; il boom delle plank road dal 1847 al 1853; e le strade a pedaggio del far west dal 1850 al 1902. 

Il periodo delle turnpike, 1792-1845


Prima del 1792 gli statunitensi non hanno avuto alcuna esperienza diretta di turnpike private; le strade venivano costruite, finanziate e gestite principalmente dalle amministrazioni comunali. Solitamente la cittadinanza veniva sottoposta ad una tassa per i lavori stradali. Lo Stato di New York, per esempio, impose a fronte di una multa di un dollaro, ad ogni maschio idoneo, di lavorare alle strade un minimo di tre giorni all’anno. La richiesta poteva essere evitata se il lavoratore avesse pagato 62,5 centesimi per ogni giorno. Trattandosi di lavori pubblici gli incentivi erano scarsi, perché le attività non erano riconducibili ad un proprietario di ultima istanza – un proprietario privato che abbia diritto ai profitti e alle perdite generate. I lavoratori erano reclutati in via transitoria e senza stabile organizzazione. Poiché i capisquadra e i lavoratori erano solitamente agricoltori, troppo spesso le tempistiche agricole, anzichè il deterioramento delle strade, determinavano la programmazione dei lavori di riparazione. Ad eccezione di alcuni casi di stanziamenti specifici, il finanziamento proveniva principalmente dalle multe e dalle tariffe di esonero pagate dai cittadini. I commissari stradali difficilmente potevano pianificare importanti miglioramenti. Quando una nuova necessaria connessione passava attraverso nuovi territori non ancora colonizzati diventava particolarmente difficile trovare manodopera, poiché l’obbligo poteva essere imposto solo nel medesimo distretto di residenza del lavoratore. Siccome le aree di lavoro erano suddivise in distretti sorgevano problemi di coordinamento tra le diverse giurisdizioni. La condizione delle strade fu sempre inadeguata, come spesso riconobbero pubblicamente vari governatori di New York (Klein e Majewski 1992, p.472-75).

martedì 8 gennaio 2013

Conseguenze indesiderate


di Stephen J. Dubner e Steven D. Levitt (traduzione e premessa di Tommaso Cabrini)



Oggi vi propongo un nuovo articolo scritto dagli autori di Freakonomics e SuperFreakonomics.
Le conseguenze indesiderate di cui parla il titolo sono quelle relative alla legislazione, in particolare quella indirizzata ad aiutare alcune delle cosiddette “fasce deboli”, o gli animali (come il Picchio della Coccarda, nella foto). Ma come suggeriva Bastiat c’è ciò che si vede, gli effetti immediati e i buoni propositi del legislatore, e ciò che non si vede, gli effetti indesiderati analizzati nell’articolo. Questi analizzati non sono che quattro casi di leggi che si sono rivoltate contro coloro che dovevano aiutare, la colpa non può che essere individuata nelle scarse capacità del legislatore di vedere il quadro complessivo nel quale vengono ad inserirsi le nuove norme.




domenica 30 dicembre 2012

L'ultimatum di Barack


Barack Obama a ruota libera: «Un piano equilibrato che protegga la classe media, tagli le spese in maniera responsabile e chieda ai più ricchi di pagare un po’ di più: questa è la cosa giusta per la nostra economia»*. Se tutto andrà a catafascio, la colpa sarà dei repubblicani: questo il messaggio sotteso. Dato che la spesa pubblica non si può tagliare, l'élite democratica ha pensato bene di seguire l'alto esempio di Hollande, il Krusciov di Rouen. Viva la grande madre Amerika.

*Fonte: http://www.blogtaormina.it/2012/12/30/fiscal-cliff-obama-lancia-lultimatum/140965

sabato 24 novembre 2012

L'addio di Ron Paul al Congresso

Traduzione di Alessio Cuozzo*


Addio al Congresso
Questa potrebbe benissimo essere l'ultima volta che parlo dal seggio della Camera. Alla fine dell'anno lascerò il Congresso dopo averlo servito per 23 anni lungo un periodo complessivo di 36. I miei obiettivi nel 1976 erano gli stessi di oggi: promuovere pace e prosperità attraverso una stretta aderenza ai principi della libertà individuale.

La mia opinione era che la politica che gli Stati Uniti avevano intrapreso nella seconda parte del ventesimo secolo ci avrebbe portato ad un'enorme crisi finanziaria e ci avrebbe avvolto in una politica estera che ci avrebbe esteso eccessivamente, ponendo in pericolo la nostra sicurezza nazionale. Per raggiungere i traguardi che desideravo, il governo avrebbe dovuto restringersi in grandezza ed obiettivi, riducendo la spesa, cambiando la politica monetaria e rifiutando gli insostenibili costi che portano con sè il voler essere i poliziotti del mondo e il voler espandere l'Impero americano.

I problemi sembravano immensi ed impossibili da risolvere, nonostante dal mio punto di vista, il solo rispetto dei vincoli al governo federale inseriti nella Costituzione sarebbe stato un buon modo per cominciare.


sabato 10 novembre 2012

America? Una mezza sconfitta

di Damiano Mondini
Dalle 2 di notte, ora italiana, del 7 novembre è parso chiaro a chiunque avesse gli occhi per vedere:  la presidenza del democratico Barack Obama sarebbe durata altri quattro anni – four more years, come recita lo slogan spopolato sui social networks. La vittoria sul candidato repubblicano Mitt Romney si è rivelata schiacciante contro ogni previsione, e non v’è motivo di credere che la maggioranza dell’Elefantino alla Camera potrà seriamente cambiare le carte in tavola. Gli Stati Uniti d’America hanno voluto dare un messaggio chiaro, apparentemente difficile da fraintendere, ma che darà senz’altro adito a differenti interpretazioni. Al netto degli entusiasmi infantili sollevati dal risultato nei media italiani, il voto deve essere letto più come una sconfitta dell’accoppiata repubblicana Romney-Ryan che non come una vittoria del duo democratico Obama-Biden.

lunedì 5 novembre 2012

Paul Ryan, il vice di Romney

di Luca Fusari (pubblicato su Radicalweb)

Paul Ryan: Il “riformatore” del sistema
Paul Davis Ryan è nato nel 1970 a Janesville, in Wisconsin da una famiglia di origini irlandesi;  quartogenito di Paul e Betty Ryan,  da generazioni i Ryan si occupano della costruzione di strade e oggi la Ryan Inc, fondata nel 1884 dal bisnonno, è una società affermata a livello nazionale.
A differenza di Romney, non ha mai fatto mistero sulla sua ricchezza personale che si aggira fra i 927mila e i 3,2 milioni di dollari.
Paul Ryan e la moglie Janna hanno pagato il 20% di tasse nel 2011 e il 15,9% nel 2010, pari a 64.764 dollari in tasse federali, su un reddito lordo di 323.416 dollari; nel 2010, 34.233 dollari su 215.417 dollari dichiarati secondo quanto risulta dalle dichiarazioni dei redditi pubblicate sul sito della campagna elettorale del Grand Old Party.


lunedì 3 settembre 2012

Why I am not a neo-conservative

di Damiano Mondini



Gli americani saranno all’altezza del compito di mantenere la supremazia statunitense e di fare uno sforzo continuo per plasmare l’ambiente internazionale? Sì, se i leader politici americani avranno l’intelligenza e la volontà politica per fare ciò che è necessario. […] Mantenere la supremazia americana non vale forse un aumento della spesa della difesa, dal 3 al 3,5% del Pil?


Così scrivevano Robert Kagan e William Kristol in Present Danger, un articolo apparso sulla rivista americana The National Interest nella primavera del 2000. Nell’articolo i due illustravano nel dettaglio la loro opinione intorno al ruolo strategico internazionale degli Stati Uniti d’America. Quello scritto incarnava altresì l’essenza della matrice ideologica da cui provenivano gli autori, vale a dire il neoconservatism. Ed eccoci giunti al perché di una citazione apparentemente inusuale per il nostro blog. Il pensiero neo-con rappresenta infatti uno dei nemici principali e più agguerriti del limpido libertarismo che andiamo difendendo; e la miglior strategia difensiva, almeno in questo caso, consiste innanzitutto nel comprendere la forma mentis dell’avversario: per evitare di cadere nelle sue trappole e soprattutto per tentare di contrastarlo. Invero, fino a qualche tempo fa ero persuaso che le reali insidie per gli ideali liberali fossero il socialismo da una parte e il left-liberalism dall’altra; non ritenevo così cogenti le minacce e il fuoco amico di certi ambienti conservatori. D’altronde, mi sono sempre considerato più attiguo ad un tradizionale conservatorismo che non al progressismo politically correct dei liberals americani e dell’intellighenzia perbenista europea.