Visualizzazione post con etichetta Miglio. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Miglio. Mostra tutti i post

sabato 19 gennaio 2013

Credere in Maroni?

di Damiano Mondini


La mia Lombardia vuole meno tasse per le imprese. La mia Lombardia da più lavoro ai giovani. La mia Lombardia taglia gli sprechi e crea più sviluppo. La Lombardia in testa”. Da settimane questo martellante spot pubblicitario assilla i frequentatori di YouTube. Si tratta dell’ultima – e chissà quanto efficace – trovata della campagna elettorale di Roberto Maroni, candidato della Lega Nord e del Popolo della Libertà alla Presidenza della Regione Lombardia. L’obiettivo è convincere gli elettori potenziali e i semplici simpatizzanti che la strada della Lega è l’unica percorribile per sciogliere il Nord dal giogo dello Stato centrale, da tempo esemplificato dalla nota immagine di “Roma Ladrona”. Dissoltasi la possibilità di tentare la scalata in Parlamento – poiché con ogni probabilità la prossima Camera sarà un’autentica débâcle per il Carroccio - , i vertici di via Bellerio hanno intelligentemente pensato di ripiegare al Nord, coll’obiettivo di fare il pieno in un bacino elettorale meglio predisposto. Lo slogan più efficace, da questo punto di vista, è senza ombra di dubbio il seguente: “Trattenere in Lombardia il 75% delle tasse pagate dai lombardi!”. Riecheggia per chi ha memoria il vecchio adagio "Paga somaro lombardo!" Un proposito apparentemente appetibile anche per gli indipendentisti più coerenti e radicali. Ma quant’è realmente credibile? E cosa si nasconde davvero dietro il simulacro della Lega Nord 2.0?

domenica 11 novembre 2012

L'Italia si spaccherà. Grazie (anche) a Mameli

di Paolo Amighetti

L'inno di Mameli sarà inserito nei programmi scolastici. Gli studenti si avvicineranno così alle sue note e impareranno chi era questo Mameli, cosa ha fatto in vita sua e perché ci ricordiamo di lui solamente per l'attacco famoso: «Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta...». La speranza, ovviamente, è che maturino il giudizio musicale più immediato, e cioè che è tra gli inni più brutti del mondo; che capiscano, come diceva Montanelli, che Scipio in verità si chiamava Scipione ed era un pezzaccio di imperialista, una sorta di Rodolfo Graziani dell'antichità; che strillare «stringiamoci a corte» non ha alcun senso, e che semmai quel pezzo suonerebbe «stringiamci a coorte», con esplicito collegamento alle divisioni romane, che laddove facevano il deserto lo chiamavano pace; e infine che gli insegnanti si spingano fino alla quarta strofa, dove si trovano riferimenti, udite udite, alla Lega Lombarda («dall'Alpe a Sicilia, ovunque è Legnano»), o all'ultima prima del ritornello, carica di invettive truculente agli austriaci che bevono il sangue italiano come i russi quello dei polacchi. Apologia di crimini di guerra, immagini degne di un film horror, mistificazioni storiche: tutto questo verrà condensato per decreto in lezioni apposite, così da far sbocciare nel cuore dei fanciulli l'amore per la patria. Roba da fascismo, come titola L'Indipendenza.

sabato 6 ottobre 2012

Per un indipendentismo liberale e libertario

di Paolo Amighetti

Negli anni Novanta l'Italia fu scossa da due gravi terremoti che sconvolsero la scena politica: lo scandalo di Tangentopoli, che segnò la caduta fragorosa del sistema partitocratico della «prima repubblica», e l'avanzata, costante ed inarrestabile, del fenomeno leghista. 
Tra il 1989 e il 1994, tutti i nodi parevano ormai venuti al pettine: si dissolvevano sia l'ordine mondiale bipolare della guerra fredda, sia il sistema partitico italiano che aveva retto le sorti della repubblica per quasi cinquant'anni. Il crollo del muro di Berlino e lo scioglimento dell'URSS decretavano la scomparsa del socialismo reale, e una moltitudine di nuovi Stati dichiarava la propria indipendenza da Mosca.

La Cecoslovacchia si scindeva pacificamente per fare spazio alla Repubblica Ceca e alla Slovacchia; la stessa Jugoslavia, spossata dalle spinte centrifughe delle ex-repubbliche federative, crollava su se stessa e scivolava in una spirale di violenza. Tutti questi eventi impressionarono molto gli osservatori e gli studiosi, e Gianfranco Miglio in particolare: secondo il costituzionalista comasco, la fine della guerra fredda coincideva con una svolta ben più profonda e significativa, e cioè con il tramonto dello Stato moderno.

«Quello che è accaduto alla fine del secolo, il nostro '89, è paragonabile per portata ed importanza soltanto al 1789; [...] è un evento di portata storica eccezionale. Due sono gli sviluppi: c'è la caduta di una certa concezione dello Stato, [...] il crollo dei regimi comunisti ha significato la dissoluzione di una concezione dello Stato che era cominciata con la rivoluzione del 1789; l'altro sviluppo è legato alla fine dello Stato omogeneizzante, unitario, sovrano, eterno nel tempo, che ha il diritto di ridurre tutti all'omogeneità, perché questo concetto va in liquidazione. Ed ecco l'emergere dei particolarismi.» [1]

Ed ecco, cioè, l'emergere delle «piccole patrie» nell'Europa continentale e del regionalismo leghista nell'Italia settentrionale. Miglio riteneva che la fase «ad alta intensità politica» del dopoguerra, dominata dall'ideologia, si fosse ormai esaurita per lasciar spazio ad un'epoca in cui avrebbero prevalso i rapporti contrattuali tra privati e comunità ristrette; d'altronde la rivoluzione tecnologica, l'avvento dei computer, di internet e il processo di globalizzazione sembravano dare ragione a chi sosteneva che i confini, i decreti, insomma i vincoli di Stato fossero inadeguati ai tempi. Così il profesùr decise di appoggiare il movimento di Bossi, che sembrava deciso a riformare radicalmente il sistema. Peraltro la Lega, che era estranea al regime partitocratico, poteva trarre vantaggio dal disfacimento della «prima repubblica»; e non è un caso che Bossi abbia soffiato a lungo sul fuoco dell'indignazione popolare, e che in un primo tempo molti lo abbiano votato soprattutto per castigare i vecchi partiti di governo.

La Lega, movimento di protesta, propugnava una vera rivoluzione: nel clima tutto particolare dei primi anni Novanta, infatti, introdusse nel dibattito politico i temi del federalismo, condannando la redistribuzione della ricchezza; anche per questo strati sempre più consistenti della borghesia settentrionale davano il proprio consenso al movimento nordista. Dopo la rottura con Miglio e la prima esperienza di governo, terminata con il celebre «ribaltone», Bossi diede il via alla campagna per «l'indipendenza della Padania»: alle elezioni del 1996 il movimento si presentò quale alternativa ai due schieramenti di centrodestra e centrosinistra, conquistando il più alto numero di voti nella sua storia: 4.038.239. [2]

Alle parole e ai numeri non seguirono i fatti, e qualche anno dopo la Lega, abbandonata l'«avventura» separatista, tornava dalla parte di Berlusconi. Gli indipendentisti si trovarono dinanzi ad un bivio: rinnegare la secessione per seguire le manovre strategiche del capo, o abbandonare il movimento per cercar fortuna altrove?