di
Paolo Amighetti
Negli anni Novanta l'Italia fu scossa da due gravi terremoti che sconvolsero la scena politica: lo scandalo di Tangentopoli, che segnò la caduta fragorosa del sistema partitocratico della «prima repubblica», e l'avanzata, costante ed inarrestabile, del fenomeno leghista.
Tra il 1989 e il 1994, tutti i nodi parevano ormai venuti al pettine: si dissolvevano sia l'ordine mondiale bipolare della guerra fredda, sia il sistema partitico italiano che aveva retto le sorti della repubblica per quasi cinquant'anni. Il crollo del muro di Berlino e lo scioglimento dell'URSS decretavano la scomparsa del socialismo reale, e una moltitudine di nuovi Stati dichiarava la propria indipendenza da Mosca.
La Cecoslovacchia si scindeva pacificamente per fare spazio alla Repubblica Ceca e alla Slovacchia; la stessa Jugoslavia, spossata dalle spinte centrifughe delle ex-repubbliche federative, crollava su se stessa e scivolava in una spirale di violenza. Tutti questi eventi impressionarono molto gli osservatori e gli studiosi, e Gianfranco Miglio in particolare: secondo il costituzionalista comasco, la fine della guerra fredda coincideva con una svolta ben più profonda e significativa, e cioè con il tramonto dello Stato moderno.
«Quello che è accaduto alla fine del secolo, il nostro '89, è paragonabile per portata ed importanza soltanto al 1789; [...] è un evento di portata storica eccezionale. Due sono gli sviluppi: c'è la caduta di una certa concezione dello Stato, [...] il crollo dei regimi comunisti ha significato la dissoluzione di una concezione dello Stato che era cominciata con la rivoluzione del 1789; l'altro sviluppo è legato alla fine dello Stato omogeneizzante, unitario, sovrano, eterno nel tempo, che ha il diritto di ridurre tutti all'omogeneità, perché questo concetto va in liquidazione. Ed ecco l'emergere dei particolarismi.» [1]
Ed ecco, cioè, l'emergere delle «piccole patrie» nell'Europa continentale e del regionalismo leghista nell'Italia settentrionale. Miglio riteneva che la fase «ad alta intensità politica» del dopoguerra, dominata dall'ideologia, si fosse ormai esaurita per lasciar spazio ad un'epoca in cui avrebbero prevalso i rapporti contrattuali tra privati e comunità ristrette; d'altronde la rivoluzione tecnologica, l'avvento dei computer, di internet e il processo di globalizzazione sembravano dare ragione a chi sosteneva che i confini, i decreti, insomma i vincoli di Stato fossero inadeguati ai tempi. Così il profesùr decise di appoggiare il movimento di Bossi, che sembrava deciso a riformare radicalmente il sistema. Peraltro la Lega, che era estranea al regime partitocratico, poteva trarre vantaggio dal disfacimento della «prima repubblica»; e non è un caso che Bossi abbia soffiato a lungo sul fuoco dell'indignazione popolare, e che in un primo tempo molti lo abbiano votato soprattutto per castigare i vecchi partiti di governo.
La Lega, movimento di protesta, propugnava una vera rivoluzione: nel clima tutto particolare dei primi anni Novanta, infatti, introdusse nel dibattito politico i temi del federalismo, condannando la redistribuzione della ricchezza; anche per questo strati sempre più consistenti della borghesia settentrionale davano il proprio consenso al movimento nordista. Dopo la rottura con Miglio e la prima esperienza di governo, terminata con il celebre «ribaltone», Bossi diede il via alla campagna per «l'indipendenza della Padania»: alle elezioni del 1996 il movimento si presentò quale alternativa ai due schieramenti di centrodestra e centrosinistra, conquistando il più alto numero di voti nella sua storia: 4.038.239. [2]
Alle parole e ai numeri non seguirono i fatti, e qualche anno dopo la Lega, abbandonata l'«avventura» separatista, tornava dalla parte di Berlusconi. Gli indipendentisti si trovarono dinanzi ad un bivio: rinnegare la secessione per seguire le manovre strategiche del capo, o abbandonare il movimento per cercar fortuna altrove?