sabato 3 novembre 2012

Quando c'era lui... caro lei!

di Paolo Amighetti

Lo scorso 28 ottobre, alcuni nostalgici del duce si sono dati convegno a Predappio per celebrare il novantesimo anniversario della marcia su Roma. Una lugubre carnevalata, niente di più: camicie nere, fez, saluti romani e stendardi al vento. Reso omaggio al fondatore dell'impero, i fascisti hanno fatto fagotto per tornarsene a casa. Potevano impiegare meglio il loro tempo, d'accordo: ma come giustificare l'accanimento degli «oltranzisti» della Costituzione, secondo i quali la polizia avrebbe fatto bene a disperdere i convenuti? La loro colpa sarebbe l'apologia di fascismo, che l'ordinamento italiano considera reato.
In effetti, nel 1948, all'indomani della guerra mondiale e della guerra civile, i costituenti si adoperarono al fine di prevenire qualsiasi resurrezione del movimento mussoliniano: vietarono così la ricostituzione del disciolto partito fascista e confezionarono il reato di «apologia del fascismo». Siamo alle solite: un muro di carta impedisce agli individui l'esercizio dei diritti naturali.
Non si vede, infatti, cosa ci sia di legalmente perseguibile nel gridare: «viva il duce!». In quest'esclamazione c'è una buona dose di ingenuità e di grezza superficialità: come si può sostenere una dittatura ventennale che ha seppellito la libertà e oppresso i dissidenti? Sarebbe tuttavia peggio che stupido imporre una pena a chiunque difenda Mussolini: significherebbe scavare la tomba alla libertà di espressione. Perché di questo si tratta. Un conto, infatti, sono le manganellate; un altro la semplice manifestazione di un'idea.
La frase «disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo» turba poco la coscienza dei «democratici», che da quell'orecchio non ci sentono. La Costituzione è dalla loro, ma il buonsenso no: il reato d'opinione andava di moda proprio quando c'era lui. Insomma, a rinverdire i fasti del fascismo non sono gli otto gatti di Predappio, ma i partigiani dell'antifascismo.

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