domenica 20 gennaio 2013

Partiti personali? Il male minore

di Paolo Amighetti
Stamattina, il Giornale di Brescia si è affidato alla penna di Roberto Chiarini per un giudizio tagliente sui cosiddetti «partiti personali». Il sunto del fondo, che riprende una recente affermazione di Bersani, è pressappoco questo: la democrazia italiana è in fin di vita a causa dei leader che fondano un partito a loro immagine e somiglianza. Chi costituisce un gruppo o un movimento per diventarne l'unico simbolo, l'unica bandiera, ha la colpa di tutto. Scrive Chiarini: «A lungo da noi si è opposta una strenua, cieca resistenza ad ogni forma di personalizzazione della politica. Non si voleva prendere atto che sono finiti i tempi dei cosiddetti "partiti chiesa". Questi avranno anche avuto il loro papa ma si reggevano pur tuttavia su una schiera nutrita di officianti e soprattutto su una sterminata massa di fedeli. Con la fine delle ideologie, il trionfo dell'individualismo e il passaggio ad una comunicazione politica dominata dal mezzo televisivo si è consumata una rivoluzione nel modo d'essere dei partiti: la loro causa si è identificata praticamente solo con una faccia, mentre il loro corpo si è enormemente smagrito e svigorito finendo quasi a scomparire.» Ohibò. Dunque, dopo la sepoltura della «prima repubblica», dopo la morte del pentapartito e della partitocrazia vecchio stampo, dopo una mezza rivoluzione non riusciamo a chiedere di meglio che il ritorno agli apparati elefantiaci, all'onnipotenza delle segreterie? Non ci eravamo stufati dei «partiti chiesa»? Non ci davano ormai fastidio le liturgie, i sermoni, i paramenti dell'ideologia?
Senza contare che questa specie di personalismo postmoderno ha radici ben più antiche del famigerato governo Berlusconi del 1994 (tanto per colpire un bersaglio fin troppo scontato). Fin dagli anni Ottanta, per fare un esempio, il Psi era Craxi e soltanto Craxi. La giovane Lega Lombarda era Bossi, e soltanto Bossi. Prima ancora, i repubblicani erano La Malfa (senior), e soltanto La Malfa. Dov'è dunque il guaio? Lo individua Chiarini: «Lo specifico dell'Italia è che imperversano i partiti dichiaratamente personali. Partiti senza storia, senza insediamento territoriale, senza struttura organizzativa, senza una chiara identità, dove un nome riassuma un'idea.» Gruppuscoli di spiantati senza arte né parte, piccole sette prive di mordente e identità. Un cimitero, insomma. Chi si salva? Nessuno. Anzi, qualcuno sì: il Partito Democratico, l'ultimo «partito chiesa» d'Italia, mirabilmente sfuggito all'insidia del personalismo. Diamo un'occhiata ai suoi leader: D'Alema, Veltroni, Bersani, Fassino. Uno stato maggiore degno dell'Armata rossa, di gente che ha visto crollare il muro di Berlino senza batter ciglio: una classe politica affidabile e rodata, perché iniziata alla chiesa comunista dove ha preso i voti. Niente e nessuno è riuscito ad interrompere la linea dinastica che collega Togliatti a Bersani: con che risultato? Il nerbo del Pd rimane avvinghiato al potere, o alla sua anticamera, praticamente da sempre. Cambiando sigle e nomi, s'intende: ma restando saldamente a bordo della nave. Pensate, invece, alla forza travolgente del personalismo: la segreteria di Craxi ha fulminato un partito centenario condannandolo all'estinzione, il dispotismo del camerata Fini ha ucciso la destra sociale, quello di Berlusconi ha decretato la morte del centrodestra. I leader vogliono mettere il loro nome sui simboli? Meglio, gli elettori capiranno che in politica non contano le idee ma l'ambizione. Vanno di moda le personalità e non le filosofie? Bene, la gente si renderà conto che dietro allo show c'è poco. Singoli uomini fanno e disfanno i destini dei partiti e dei governi? Ottimo: daremo finalmente un volto al potere, sapremo a chi dare la colpa. Le ideologie muoiono? Poco male, ci faremo un'iniezione di realismo. Impareremo così ad avere sempre meno fiducia nei politici: la pianteremo di firmare deleghe in bianco.

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