Negli anni Novanta l'Italia fu scossa da due gravi terremoti che sconvolsero la scena politica: lo scandalo di Tangentopoli, che segnò la caduta fragorosa del sistema partitocratico della «prima repubblica», e l'avanzata, costante ed inarrestabile, del fenomeno leghista.
Tra il 1989 e il 1994, tutti i nodi parevano ormai venuti al pettine: si dissolvevano sia l'ordine mondiale bipolare della guerra fredda, sia il sistema partitico italiano che aveva retto le sorti della repubblica per quasi cinquant'anni. Il crollo del muro di Berlino e lo scioglimento dell'URSS decretavano la scomparsa del socialismo reale, e una moltitudine di nuovi Stati dichiarava la propria indipendenza da Mosca.
La Cecoslovacchia si scindeva pacificamente per fare spazio alla Repubblica Ceca e alla Slovacchia; la stessa Jugoslavia, spossata dalle spinte centrifughe delle ex-repubbliche federative, crollava su se stessa e scivolava in una spirale di violenza. Tutti questi eventi impressionarono molto gli osservatori e gli studiosi, e Gianfranco Miglio in particolare: secondo il costituzionalista comasco, la fine della guerra fredda coincideva con una svolta ben più profonda e significativa, e cioè con il tramonto dello Stato moderno.
«Quello che è accaduto alla fine del secolo, il nostro '89, è paragonabile per portata ed importanza soltanto al 1789; [...] è un evento di portata storica eccezionale. Due sono gli sviluppi: c'è la caduta di una certa concezione dello Stato, [...] il crollo dei regimi comunisti ha significato la dissoluzione di una concezione dello Stato che era cominciata con la rivoluzione del 1789; l'altro sviluppo è legato alla fine dello Stato omogeneizzante, unitario, sovrano, eterno nel tempo, che ha il diritto di ridurre tutti all'omogeneità, perché questo concetto va in liquidazione. Ed ecco l'emergere dei particolarismi.» [1]
Ed ecco, cioè, l'emergere delle «piccole patrie» nell'Europa continentale e del regionalismo leghista nell'Italia settentrionale. Miglio riteneva che la fase «ad alta intensità politica» del dopoguerra, dominata dall'ideologia, si fosse ormai esaurita per lasciar spazio ad un'epoca in cui avrebbero prevalso i rapporti contrattuali tra privati e comunità ristrette; d'altronde la rivoluzione tecnologica, l'avvento dei computer, di internet e il processo di globalizzazione sembravano dare ragione a chi sosteneva che i confini, i decreti, insomma i vincoli di Stato fossero inadeguati ai tempi. Così il profesùr decise di appoggiare il movimento di Bossi, che sembrava deciso a riformare radicalmente il sistema. Peraltro la Lega, che era estranea al regime partitocratico, poteva trarre vantaggio dal disfacimento della «prima repubblica»; e non è un caso che Bossi abbia soffiato a lungo sul fuoco dell'indignazione popolare, e che in un primo tempo molti lo abbiano votato soprattutto per castigare i vecchi partiti di governo.
La Lega, movimento di protesta, propugnava una vera rivoluzione: nel clima tutto particolare dei primi anni Novanta, infatti, introdusse nel dibattito politico i temi del federalismo, condannando la redistribuzione della ricchezza; anche per questo strati sempre più consistenti della borghesia settentrionale davano il proprio consenso al movimento nordista. Dopo la rottura con Miglio e la prima esperienza di governo, terminata con il celebre «ribaltone», Bossi diede il via alla campagna per «l'indipendenza della Padania»: alle elezioni del 1996 il movimento si presentò quale alternativa ai due schieramenti di centrodestra e centrosinistra, conquistando il più alto numero di voti nella sua storia: 4.038.239. [2]
Alle parole e ai numeri non seguirono i fatti, e qualche anno dopo la Lega, abbandonata l'«avventura» separatista, tornava dalla parte di Berlusconi. Gli indipendentisti si trovarono dinanzi ad un bivio: rinnegare la secessione per seguire le manovre strategiche del capo, o abbandonare il movimento per cercar fortuna altrove?
Ad oggi, molti di questi fuoriusciti animano dei piccoli partiti autonomisti o indipendentisti. Ogni movimento secessionista lombardo o veneto è costretto a fare i conti con l'esperienza leghista degli anni Novanta; e in effetti tutti i partiti di questo genere devono molto all'epopea di Bossi, benché spesso tentino di negarlo. Decisi a rompere i ponti con il passato, pare abbiano voluto sbarazzarsi dell'arroganza di Bossi come della sottigliezza di Miglio, del sole delle Alpi come dei più profondi studi del professore comasco. Ciò che accomuna questi gruppuscoli è l'ostilità per la Lega; tutto il resto li separa, e anche al loro interno i dibattiti sono accesi e gli scontri frequenti (il frazionismo, infatti, è un male di cui soffrono moltissimi movimenti regionalisti). Sembra comunque che gli indipendentisti del Duemila, a parte forse qualche eccezione, abbiano deciso di battere la strada del populismo, del «tradizionalismo» esasperato, del protezionismo: quasi ignorassero non solo le intuizioni di Gianfranco Miglio, ma anche tutto un filone di pensiero, quello liberale e libertario, in grado di legittimare con forza le aspirazioni all'autogoverno e alla secessione. Peccato, perché sotto molti aspetti l'idea libertaria può offrire solido sostegno al separatismo.
Ad oggi, molti di questi fuoriusciti animano dei piccoli partiti autonomisti o indipendentisti. Ogni movimento secessionista lombardo o veneto è costretto a fare i conti con l'esperienza leghista degli anni Novanta; e in effetti tutti i partiti di questo genere devono molto all'epopea di Bossi, benché spesso tentino di negarlo. Decisi a rompere i ponti con il passato, pare abbiano voluto sbarazzarsi dell'arroganza di Bossi come della sottigliezza di Miglio, del sole delle Alpi come dei più profondi studi del professore comasco. Ciò che accomuna questi gruppuscoli è l'ostilità per la Lega; tutto il resto li separa, e anche al loro interno i dibattiti sono accesi e gli scontri frequenti (il frazionismo, infatti, è un male di cui soffrono moltissimi movimenti regionalisti). Sembra comunque che gli indipendentisti del Duemila, a parte forse qualche eccezione, abbiano deciso di battere la strada del populismo, del «tradizionalismo» esasperato, del protezionismo: quasi ignorassero non solo le intuizioni di Gianfranco Miglio, ma anche tutto un filone di pensiero, quello liberale e libertario, in grado di legittimare con forza le aspirazioni all'autogoverno e alla secessione. Peccato, perché sotto molti aspetti l'idea libertaria può offrire solido sostegno al separatismo.
Qualunque movimento indipendentista sostiene che una parte della popolazione sia danneggiata o addirittura sfruttata dal governo centrale, e che quella minoranza starebbe meglio se riuscisse ad sottrarre sé, il proprio territorio e la propria ricchezza alle grinfie del potere centrale. Nessuna rivendicazione indipendentista, dunque, può fare a meno di basarsi sull'idea che ad un governo ingiusto sia legittimo ribellarsi.
Un convinto assertore del diritto di resistenza ad un governo oppressivo (che non si regga cioè sul consenso dei governati ma solo sulla forza bruta) è John Locke, capostipite del pensiero liberale classico. Scrive il filosofo inglese:
«Sebbene in una società politica costituita, che poggi sui propri fondamenti e deliberi secondo natura, cioè a dire in vista della conservazione della comunità, non vi possa essere che un solo potere supremo, ch'è il legislativo, [...] rimane sempre nel popolo il potere supremo di rimuovere o alterare il legislativo, quando vede che il legislativo delibera contro la fiducia in esso riposta. Infatti, poiché ogni potere, conferito con fiducia per il conseguimento di un fine, è limitato da questo fine medesimo, ogniqualvolta il fine viene manifestamente trascurato o contrastato, la fiducia deve necessariamente cessare, e il potere ritornare nelle mani di coloro che l'hanno conferito, i quali possono nuovamente collocarlo dove meglio giudicano, per la loro tranquillità e sicurezza. È così che la comunità conserva sempre il potere supremo di preservarsi dagli attentati e dalle intenzioni di chicchessia, anche dei suoi legislatori, ogniqualvolta questi siano così insensati o perversi da concepire e perseguire intenzoni contrarie alla libertà e proprietà dei sudditi.» [3]
Queste parole scardinano l'intera «gabbia legalitaria» che impedisce per esempio ai lombardi di chiedere un referendum per l'indipendenza: secondo Locke è diritto dei governati opporsi ad un potere che sentono estraneo e pericoloso, e non c'è costituzione né decreto che tenga. Non è un caso che a Locke, e alla sua teoria dei diritti naturali, si ispiri la dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti: uno dei suoi redattori, Thomas Jefferson, era un fervente sostenitore delle idee del filosofo britannico. Mentre in gran parte d'Europa fioriva l'assolutismo, in America trovava le sue radici una tradizione politica incentrata sui diritti dell'individuo e sulla difesa della proprietà. Del resto, anche Henry David Thoreau ne La disobbedienza civile elogia apertamente il diritto di resistenza:
«Esistono leggi ingiuste: dobbiamo rallegrarci di obbedirvi o dobbiamo tentare di emendarle? Dobbiamo obbedirle finché la nostra azione non avrà successo o dobbiamo trasgredirle immediatamente? Generalmente gli uomini [...] pensano di dover aspettare fino al giorno in cui avranno persuaso la maggioranza a cambiare le leggi. Essi ritengono che, se si opponessero ad essa, la cura sarebbe peggiore del male che si voleva combattere. Ma è colpa dello stesso governo se il rimedio è peggiore del male. È il governo a renderlo peggiore.» [4]
«Esistono leggi ingiuste: dobbiamo rallegrarci di obbedirvi o dobbiamo tentare di emendarle? Dobbiamo obbedirle finché la nostra azione non avrà successo o dobbiamo trasgredirle immediatamente? Generalmente gli uomini [...] pensano di dover aspettare fino al giorno in cui avranno persuaso la maggioranza a cambiare le leggi. Essi ritengono che, se si opponessero ad essa, la cura sarebbe peggiore del male che si voleva combattere. Ma è colpa dello stesso governo se il rimedio è peggiore del male. È il governo a renderlo peggiore.» [4]
In generale, «resistere ad una legge iniqua» può significare anche rifiutarsi di riconoscere la sovranità di uno Stato su un determinato territorio e, ad esempio, opporsi a che le risorse ivi prodotte vengano redistribuite: il diritto di resistenza si coniuga così alle istanze separatiste di qualunque «nazione senza Stato». Peraltro, si adatta particolarmente bene al caso italiano: la voglia di secessione di veneti e lombardi, in effetti, nasce più per motivi fiscali che per un'effettiva discriminazione «etnica». [5]
Anche Ludwig von Mises sosteneva che dovessero essere i governati a decidere in merito ai confini: concetto rivoluzionario nell'Europa degli Stati-nazione, chiusi in se stessi e fedeli ad una vera e propria «religione laica» che aveva proprio nel confine (si pensi alla «frontiera» de La leggenda del Piave) uno dei suoi idoli. Scrive l'economista austriaco nel suo saggio Liberalismo:
«Il diritto di autodeterminazione, in ordine alla questione dell'appartenenza a uno Stato, significa dunque questo: che se gli abitanti di un territorio -si tratti di un singolo villaggio, di una regione o di una serie di regioni contigue- hanno espresso chiaramente attraverso libere votazioni il desiderio di non rimanere nella compagine statale cui attualmente appartengono e la volontà di costituire un nuovo Stato autonomo, o l'aspirazione ad appartenere ad un altro Stato, di questo desiderio bisogna tener conto. Solo questa soluzione può evitare guerre civili, rivoluzioni e guerre internazionali.» [6]
Nella seconda metà del XX secolo, in America, nasce una corrente di pensiero più radicale di quella liberale, ma che ad essa deve i suoi principi cardine: l'anarco-capitalismo di Murray Rothbard. Al tema della nazione, tornato d'attualità dopo il fragoroso crollo dell'Unione Sovietica e del socialismo reale, il professore americano dedica un saggio intitolato Nazioni per consenso. Qui più che mai è la volontà degli individui a giocare un ruolo centrale: Rothbard non ha riguardi né per i dogmi nazionalisti né per la mitologia del confine «sacro ed inviolabile». Rifiuta in particolare l'idea secondo cui ogni Stato nazionale «"possiede" la sua intera area geografica nello stesso giusto e proprio modo in cui ogni singolo proprietario possiede la sua persona e la proprietà. » [7]
Dall'idea rigida e fossilizzata di nazione spuntano come funghi dei tratti arbitrari e cavillosi: «Solo un paio d'anni fa, l'opinione dell'establishment [...] proclamava ad alta voce l'importanza di mantenere "l'integrità territoriale" della Jugoslavia e denunciava con acredine tutti i movimenti secessionisti. Ora, solo poco tempo dopo, lo stesso establishment, ancora recentemente schierato a favore dei serbi in quanto campioni della "nazione jugoslava" e avversari degli abietti movimenti secessionisti che cercavano di distruggere quella "integrità", insulta e vuole schiacciare i serbi, rei dell'"aggressione" alla "integrità territoriale" della "Bosnia" o "Bosnia-Erzegovina", una "nazione" fabbricata che prima del 1991 non aveva più esistenza della "nazione del Nebraska"». [8]
L'ovvia conclusione è che «ogni gruppo e ogni nazionalità dovrebbero aver modo di secedere da ogni Stato nazionale e di congiungersi con ogni altro Stato nazionale che concordi nel riceverlo.» [9]
L'ovvia conclusione è che «ogni gruppo e ogni nazionalità dovrebbero aver modo di secedere da ogni Stato nazionale e di congiungersi con ogni altro Stato nazionale che concordi nel riceverlo.» [9]
Un allievo di Murray Rothbard, il filosofo anarco-capitalista Hans-Hermann Hoppe, riconosce apertamente la legittimità di qualunque rivendicazione separatista:
«Il secessionismo e la crescita di movimenti separatisti e regionalisti nell'Europa orientale e occidentale, in Nord America e altrove, non rappresentano un anacronismo, ma la forza potenzialmente più rivoluzionaria della storia, specialmente alla luce del fatto che con il crollo dell'Unione Sovietica siamo arrivati più vicini che mai all'istituzione di un "nuovo ordine mondiale". La secessione incoraggia le diversità etniche, linguistiche, religiose e culturali, mentre nel corso di secoli di centralizzazione sono state soppresse centinaia di diverse culture. Porrà fine all'integrazione forzata determinata dalla centralizzazione e, invece di provocare conflitti sociali e livellamento culturale, promuoverà la pacifica concorrenza cooperativa di diverse culture territorialmente separate. [...] Un mondo composto da decine di migliaia di diversi paesi, regioni e cantoni e da centinaia di migliaia di libere città indipendenti come le "stranezze" rappresentate oggi da Monaco, Andorra, San Marino, Linchtenstein, Hong Kong, Singapore [...] sarebbe un mondo di governi liberali economicamente integrati attraverso il libero mercato e una valuta internazionale rappresentata dall'oro, con crescita economica, prosperità e progresso culturale senza precedenti.» [10]
Dal Seicento ad oggi, pare che nessuna tradizione filosofica più di quella liberale abbia dato sostegno maggiore ai secessionisti di tutti i tempi e di tutti i continenti; e molte delle ragioni che spingono gli scozzesi, i catalani, i veneti o i lombardi all'indipendenza sembrano perfettamente compatibili con le idee a cui i liberali e i libertari sono affezionati.
Questo non deve stupire, poiché chi cerca di sfuggire ai soprusi di un governo lontano ed arrogante non fa che difendere i propri diritti individuali ed inalienabili: «la vita, la proprietà, la ricerca della felicità».
Note
1. Intervista a Gianfranco Miglio (http://www.youtube.com/watch?v=H6mrT4_Kucs)
2. Leonardo Facco, Umberto Magno: la vera storia dell'imperatore della Padania, p. 100 (Roma, Aliberti editore, 2010)
3. John Locke, Due trattati sul governo, p. 341-342 (Torino, UTET libreria, 2010)
4. Henry David Thoreau, La disobbedienza civile, p. 27 (Bussolengo, Demetra, 1995)
5. Questo non significa beninteso che le differenze culturali tra nord e sud d'Italia non siano sentite.
6. Ludwig von Mises, Liberalismo, p. 127 (Roma, Libero, 2005)
7. Murray Rothbard, Nazioni per consenso: decomporre lo Stato nazionale, proposto in Nazione, cos'è, p. 46 (Treviglio, Leonardo Facco Editore, 1997)
8. Ivi, p. 47
9. Ivi, p. 48
10. Hans-Hermann Hoppe, Democrazia: il dio che ha fallito, pp. 170-171 (Macerata, Liberilibri, 2006).
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