di
Andrea Benetton* e
Tommaso Cabrini
Articolo originariamente pubblicato su
The Fieldler
La questione dell’
uscita d’un Paese membro dall’
euro è un tema ricorrente nel dibattito politico degli ultimi anni. In
Italia, trova il consenso di chi vorrebbe ridare competitività al Paese attraverso una
svalutazione competitiva, evitando cosí d’operare quelle
riforme strutturali che spesso hanno implicazioni
sociali. Si tratta d’una tesi che ha fatto largamente breccia nell’accademia italiana, supportata da professori come Alberto
Bagnai e Claudio
Borghi, e che raccoglie oggi consensi in una parte dell’elettorato non solo di sinistra.
Chi si riconosce nel
libero mercato fino a oggi s’è trovato costretto a una difesa d’ufficio dell’euro, in chiave di contrapposizione alle posizioni dei
keynesiani e dei sostenitori della
Modern Monetary Theory. Le argomentazioni portate
contro sono le piú varie, dal fatto che la svalutazione competitiva avrebbe effetti
inflazionistici
per un Paese importatore di materie prime come l’Italia alla
constatazione che l’uscita dall’euro darebbe le chiavi della moneta alla
politica italiana, che le userebbe per emettere moneta per
pagare le spese correnti dello Stato anziché risanare il bilancio e
tagliare gli sprechi del settore pubblico.
È, però, una posizione di difesa di retroguardia, che mette da parte le critiche che economisti di libero mercato quali Milton
Friedman e Friedrich
Hayek avevano preventivamente mosso al progetto della
moneta unica europea,
che ritenevano un progetto tutto politico-costruttivista con deboli
fondamenta economiche. Peraltro, delle debolezze (da un punto di vista
del libero mercato) dell’euro e piú in generale dell’Unione Europea ho
già parlato in
quest’articolo, cui vi rimando.
Il vero punto ignorato dai piú impegnati nel concettualizzare è che la realtà,
con la sua complessità – che l’analisi economica cerca, con le sue
umane imperfezioni, di comprendere –, alla fine prevale sempre sulla volontà della politica.
Se l’euro è costruito su fondamenta d’argilla – e secondo gli autori lo
è –, è solo questione di tempo prima che i fondamentali economici
producano situazioni sui mercati e di retroazione negativa nell’àmbito
politico che porteranno alla disgregazione della costruzione europea e
dell’euro quale suo principale strumento. Fare difesa di retroguardia –
come fa oggi gran parte del mondo liberale – è, in uno scenario di
questo tipo, la peggiore delle strategie possibili. Si viene risucchiati
nell’affondamento di qualcosa che le migliori menti liberali avevano
già condannato senz’appello prima che fosse implementato. La politica
delle svalutazioni competitive con una «neoliretta» diventerà quindi una
profezia che s’auto-avvera.