lunedì 3 settembre 2012

Why I am not a neo-conservative

di Damiano Mondini



Gli americani saranno all’altezza del compito di mantenere la supremazia statunitense e di fare uno sforzo continuo per plasmare l’ambiente internazionale? Sì, se i leader politici americani avranno l’intelligenza e la volontà politica per fare ciò che è necessario. […] Mantenere la supremazia americana non vale forse un aumento della spesa della difesa, dal 3 al 3,5% del Pil?


Così scrivevano Robert Kagan e William Kristol in Present Danger, un articolo apparso sulla rivista americana The National Interest nella primavera del 2000. Nell’articolo i due illustravano nel dettaglio la loro opinione intorno al ruolo strategico internazionale degli Stati Uniti d’America. Quello scritto incarnava altresì l’essenza della matrice ideologica da cui provenivano gli autori, vale a dire il neoconservatism. Ed eccoci giunti al perché di una citazione apparentemente inusuale per il nostro blog. Il pensiero neo-con rappresenta infatti uno dei nemici principali e più agguerriti del limpido libertarismo che andiamo difendendo; e la miglior strategia difensiva, almeno in questo caso, consiste innanzitutto nel comprendere la forma mentis dell’avversario: per evitare di cadere nelle sue trappole e soprattutto per tentare di contrastarlo. Invero, fino a qualche tempo fa ero persuaso che le reali insidie per gli ideali liberali fossero il socialismo da una parte e il left-liberalism dall’altra; non ritenevo così cogenti le minacce e il fuoco amico di certi ambienti conservatori. D’altronde, mi sono sempre considerato più attiguo ad un tradizionale conservatorismo che non al progressismo politically correct dei liberals americani e dell’intellighenzia perbenista europea.

Ammetto nondimeno di aver compiuto uno degli errori strategici più comuni fra i neofiti (perché in fondo tale sono e tale rimango): sottovalutare il nemico. Ed ecco che, sornione e viscido come un serpente, quest’ultimo è riuscito ad insinuarsi e ad imporsi, almeno per un po’, nel nostro altrimenti sereno orizzonte libertario. Non recupero infatti senza motivo queste sollecitazioni dei neo-conservatives: anzi, per come sta procedendo la campagna elettorale statunitense in vista delle elezioni di novembre, urge come non mai fermarsi a riflettere su questi cantori della supremazia americana. Mi sto senz’altro riferendo alla nomina di Paul Ryan a candidato vicepresidente del repubblicano Mitt Romney. Apparentemente, dovrebbe trattarsi di una vittoria: il nuovo che avanza, un giovane rampante, un acerrimo nemico dello statalismo di Obama e dei democrats, un convinto oppositore della riforma sanitaria Obamacare, un uomo del Tea Party. E non c’è alcun dubbio che Ryan possa vantare molti meriti nei confronti di Obama e dell’establishment dell’Asinello; soprattutto in ambito economico (lo confesso, l’unico di cui capisca davvero qualcosa), nel quale si professa un anti-interventista e un fervente sostenitore del buon vecchio laissez-faire. Detto altrimenti: io, come forse molti libertari americani, se costretto a scegliere fra i due partiti principali opterei senza remora alcuna per Romney e il suo braccio destro Ryan. Ciò nondimeno, non sarei in linea coll’abituale verve di questo blog se non mi soffermarsi a sottolineare con forza le numerose “linee di faglia” della Ryanomics, in virtù delle quali Ryan si rivela per ciò che realmente è: non un tea partier, né tanto meno un libertario del Cato Institute; bensì null’altro che un neoconservatore. Parafrasando Luigi Marco Bassani, la mia non è né una boutade né un’affermazione settaria: in prima istanza, non sono il tipo da scherzare su argomenti delicati come la politica statunitense; inoltre, l’etichetta del settario mi si addice davvero poco. Procediamo quindi a corroborare la mia tesi (“Paul Ryan è una giovane volpe neo-con”) con un abbozzo di argomentazione:

- Per come la vedo io, se fosse davvero il catalizzatore delle richieste della base del Tea Party, Ryan non promuoverebbe un forte incremento delle spese militari e un conseguente irrobustimento dell’interventismo degli USA in territorio straniero. Proporre tagli radicali alla spesa per Welfare (Romney non ama questo termine, ma io lo spendo a ragion veduta) per poi sostenere forti aumenti di budget per la Difesa è un tipico espediente neoconservatore. Personalmente, trovo meno stomachevole questa posizione neo-con rispetto al buonismo pacifista dei liberals; questi ultimi, infatti, con una mano reclamano la pace all’estero, mentre con l’altra spalleggiano l’espansione del big government in politica interna, dimostrando che, alla bisogna, la violenza dell’apparato statale merita di essere avallata. Questo non toglie che ambedue gli schieramenti dimostrino in tal modo di essere statalisti a metà e liberali incoerenti. E poiché mi ritengo un liberale coerente e per nulla statolatra, non vedo in fondo perché dovrei preferire l’ipocrisia degli uni a quella degli altri.
- Inoltre, almeno stando a quanto sostenuto da Wikileaks, il militarismo nazionalista di Ryan non è del tutto disinteressato e puramente patriottico. Insinua infatti la discussa enciclopedia di Assange (chiaramente dati alla mano) che dietro alla campagna interventista della coppia Romney-Ryan vi sarebbero finanziatori legati a doppio filo con l’industria bellica. Insomma, gente potente in grado di influenzare una campagna elettorale e di compiere egregiamente un buon lavoro di rent-seeking. Da uno come Ryan, che al Congresso pontifica contro il crony capitalism inneggiando ad un autentico capitalismo di libero mercato, un comportamento del genere non dovremmo aspettarcelo. Mi duole ammettere che siamo ancora una volta in odore di ipocrisia.
Se dunque Paul Ryan, spogliato della maschera del giovanotto libertario, si dimostra nient’altro che l’ennesima replica del solito film neoconservatore, è nostro dovere ribadire, se ancora ve ne fosse bisogno, come le nostre posizioni siano agli antipodi rispetto a quelle neo-con. Hayek aveva concluso la sua monumentale Constitution of Liberty con uno scritto intitolato Why I am not a conservative, in cui ribadiva di essere un liberale non conservatore. Tralasciando che Rothbard lo avrebbe definito addirittura neoconservatore, e Hoppe avrebbe aggiunto social-democratico, mi preme qui spiegare perché non sono io un neo-conservative, e cosa dunque mi distanzia profondamente dalle istanze degli ideologi con cui ho esordito in questo articolo. Innanzitutto, io e i neo-con proveniamo da tradizioni culturali marcatamente differenti. Irving Kristol, padre di William nonché ideale fondatore del neoconservatism, era stato in gioventù un seguace della dottrina di Trotskij, il noto rivoluzionario russo. Come si ricorderà, Trotskij era un convinto fautore della “rivoluzione permanente”, ovverosia della necessità di esportare fuori dai confini sovietici – e poi chissà, nel mondo intero – i principi della rivoluzione bolscevica. La storia, nel bene o nel male, diede ragione a Stalin e torto a Trotskij e a Bucharin, e la rivoluzione si radicò esclusivamente sul suolo russo; almeno apparentemente, gli altri focolai comunisti non sono ascrivibili all’imperialismo sovietico (sul punto c’è una diatriba fra randiani e rothbardiani nella quale non mi addentro). Sta di fatto che Trotskij venne definitivamente messo in minoranza nel 1927 e costretto all’esilio; fu infine scovato e ucciso dai sicari di Stalin a Città del Messico nel 1940. Spiego subito le ragione di questa digressione storica: l’essere stato un giovane trotskista aveva reso Kristol particolarmente sensibile alla necessità di diffondere sul globo terraqueo nel modo più ampio possibile la propria ideologia. Non che questa velleità dal sapore vagamente girondino sia di per se stessa esecrabile. La tragedia consiste nell’applicare questo dogma agli Stati Uniti: farlo implica infatti sostenere un ruolo da protagonista mondiale di questo paese, investito della “missione divina” di esportare – magari a suon di bombe – i principi liberali democratici negli “stati canaglia”. Significa insomma optare per un interventismo militare che cozza profondamente con tutti gli ideali autenticamente liberali per cui lottiamo: l’isolazionismo, l’ostilità nei confronti delle guerre di Stato, il rispetto dei diritti di proprietà; i temi che del resto dividono i conservatori fedeli alla tradizione della Old Right (i cosiddetti paleo-conservatives) dai neoconservatori. Quello che più mi preme sottolineare in questa sede è che il dichiarato nazionalismo di questi ultimi, se pure viene giustificato come un tentativo di difendere e radicare gli ideali liberali nel mondo, pone in essere in realtà una pesante violazione degli stessi. Detto in poche parole: ignora il diritto all’autodeterminazione altrui; calpesta senza remore il principio di non aggressione; last but not least, aggredisce la proprietà degli stessi cittadini americani, costretti a finanziare con la tassazione la “mano che modella”, oltre che ad assistere a forti incrementi del disavanzo pubblico a causa delle spese militari. A tal proposito, avviandomi alla conclusione, ritengo perfettamente calzante la definizione di neo-con fornita dallo stesso Kristol, che forse involontariamente coglie l’aspetto peggiore del proprio orizzonte ideologico: un neoconservatore, dice infatti, è “un liberal che è stato rapinato dalla realtà”. Per ciò che concerne la parte del leone affidata allo Stato, l’aggressione delle proprietà, la tassazione e la spesa pubblica i neo-con e i liberals sono sostanzialmente gemelli diversi. Poco importa che focalizzino l’attenzione su diverse voci di spesa: nei fatti, condividono i medesimi metodi statalisti e liberticidi. Ne si deduce che un neoconservatore non può realmente incarnare lo spirito di libertà e resistenza che anima dal 2008 il Tea Party americano. Questo spiega lo scarso entusiasmo dei tea partiers nei riguardi del trionfo di Romney e Ryan a Tampa, e ci costringe a guardare con rinnovato scetticismo alle prossime elezioni presidenziali; alle quali sapremo con certezza chi non votare, ma saremo più dubbiosi su chi sostenere.

1 commento:

  1. Aggiungo un P.S. in presa diretta: leggo sul Sole 24 Ore di qualche giorno fa che, nel board dei consiglieri di politica estera di Romney-Ryan, compaiono due nomi noti, Robert "Bob" Kagan e William "Bob" Kristol. C'est la vie...

    Damiano Mondini

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