domenica 2 settembre 2012

Ripartire da Giannino? (parte terza)

di Damiano Mondini


7) Far funzionare la giustizia. Sostanzialmente si tratta di renderla più rapida, efficiente e competitiva, oltre che indipendente dai gruppi di potere e dalla longa manu della politica. Ovviamente nulla da obiettare, anche se da un senior fellow dell’Istituto Bruno Leoni (che anche dal nome si capisce essere particolarmente sensibile al tema della giustizia) mi sarei aspettato una tematizzazione esplicita di riforme più marcatamente liberali, come la promozione in sede civile, penale e amministrativa di pratiche di arbitrato. Da anarco-capitalista dovrei poi forse azzardarmi a parlare di denazionalizzazione/privatizzazione delle attività di law and order, ma un rassegnato realismo mi impone di soprassedere.

8) Liberare le potenzialità di crescita, lavoro e creatività dei giovani e delle donne. L’intento è chiaramente meritorio essendo la crescita, il lavoro e la creatività connotati essenziali di un’economia di mercato. L’importante è che la crescita non sia finanziata a suon di spesa pubblica, perché in tal caso darebbe luogo ad uno sviluppo soltanto fittizio di alcuni settori, rinvigorendo per giunta il parassitismo dilagante e avvantaggiando i soliti noti in grado di ingraziarsi qualche pubblico ufficiale ben disposto. Che poi i sussidi di disoccupazione servano ad incentivare l’occupazione mi pare un’evidente non sequitur, come pure sono dubbioso riguardo alle quote rosa e alle “quote giovani” coatte, quando al centro dell’attenzione dovrebbero esserci le competenze personali, il know how e una sana competizione volta all’efficienza e al miglioramento. Fa comunque piacere leggere di una ritrovata meritocrazia di cui abbiamo estremo bisogno, come pure del proposito di “facilitare la creazione di nuove imprese”, magari rimuovendo ostacoli all’offerta (leggi meno burocrazia, meno tasse, meno regolamentazione, meno oppressione sindacale, meno corporativismo): chissà che magari non tornino di moda la supply-side economics e la curva di Laffer.

9) Ridare alla scuola e all’università il ruolo, perso da tempo, di volani dell’emancipazione socio-economica delle nuove generazioni. Lo si dice esplicitamente: lo Stato non dovrà, in questi settori, spendere meno; dovrà spendere di più e meglio. Sappiamo dove porta la retorica della “razionalizzazione delle spese”: a tagli inconsistenti sul modello montiano della spending review e magari all’incremento di altre voci di spesa ritenute indispensabili da quella stessa intellighenzia intellettuale che se ne avvantaggia. Non vi è naturalmente nulla di sbagliato nell’introdurre nel sistema scolastico elementi di concorrenza fra istituti, meritocrazia per alunni e docenti e sostegno al merito; accolgo altresì con rinnovata gioia la proposta, che sostengo da tempo in prima linea e a cui sono particolarmente affezionato, di abolizione del valore legale del titolo di studio (lo dice anche il “progetto di libertà” del Tea Party: è l’unico modo per evitare che la scuola rimanga quel titolificio corrotto e inefficiente che è). L’incapacità cronica della macchina statale di gestire con efficienza e prontezza la scuola pare tuttavia ormai endemica (e non è colpa dei “tagli” della Gelmini, che erano solo riduzioni di previsioni di aumento di spesa, cosicché i soldi per la scuola venivano ogni anno incrementati): sarebbe dunque necessario auspicare forme di finanziamento e gestione privata della scuola, magari favorendo un legame più stretto col mondo dell’impresa; il settore andrebbe inoltre liberalizzato, evitando così a chi voglia servirsene sul mercato di pagare cifre astronomiche conseguenze dei mille balzelli imposti dallo Stato agli istituti privati, oltre che di una mancanza di vera concorrenza causata dall’iper-regolamentazione. In prima battuta non sarebbe poi così catastrofico adottare il sistema dei vouchers delineato da Milton Friedman e promuovere l’homeschooling, che sono peraltro da tempo battaglie sostenute con forza dell’Istituto Bruno Leoni.


10) Introdurre il vero federalismo con l’attribuzione di ruoli chiari e coerenti ai diversi livelli di governo. Il federalismo fiscale e amministrativo, nella formulazione datane dalla riforma del centrosinistra del titolo V e dalle successive integrazioni leghiste, ha dato ampie dimostrazioni del proprio vergognoso fallimento. Un tema caro ai libertari e a chi lotta per l’autodeterminazione è stato così vituperato e screditato dall’uso deleterio che ne hanno fatto le nostre beneamate élites politiche, che personalmente, divergendo dall’analisi del grande Gaetano Mosca, definirei una minoranza disorganizzata. Dubito di conseguenza che siano sufficienti la richiesta di maggior trasparenza, lo spauracchio della gogna e il premio ad una gestione oculata per risanarne le attuali numerosissime “linee di faglia”. Se nella logica concorrenziale del mercato l’apologo del bastone e della carota funziona (se lavori bene e ad un buon prezzo prosperi, altrimenti sei fuori gioco), esso ha molta meno presa nell’amministrazione pubblica, in cui i lavativi raramente vengono puniti (leggi “licenziati in tronco senza tutele ex articolo 18”) e i meritevoli continuano con ogni probabilità a far la fame nel regno di “Mediocristan”, per citare Il cigno nero di Nassim Taleb. L’autentico federalismo non può dunque prescindere da una più ampia riforma dell’apparato pubblico, da una semplificazione burocratica e da una preventiva liberalizzazione di quegli svariati servizi che il mercato saprebbe gestire molto meglio e a prezzi concorrenziali. Solo così sarà auspicabile una progressiva decentralizzazione delle funzione amministrative e, perché no, altresì di quelle legislative, esecutive e giudiziarie. Va inoltre ribadito che l’autonomia di spesa degli enti locali non va intesa come un’autorizzazione ad indirizzare in senso vertiginosamente incrementale le uscite, a danno dei cittadini strozzati dalle gabelle e mazziati a suon di debito; è poi necessario che eventuali inefficienze di singoli enti territoriali siano tamponate dagli stessi in prima persona, magari con dismissioni patrimoniali e tagli di spesa, e non spalmate sull’intero Paese grazie a tempestivi sussidi e salvataggi di Stato. A tal ultimo proposito, taccio per amor di patria (in senso letterale) della “questione meridionale” e di come essa andrebbe realmente risolta: qui habet aures audiendi, audiat.
Concludendo, è possibile affermare che in queste dieci proposte c’è sì molto di positivo e auspicabile, ma altrettanto di negativo ed esecrabile. Il marcato opportunismo non è tuttavia confermato soltanto da ciò che c’è nel manifesto, bensì soprattutto da ciò che manca. Non vi è infatti traccia di quella che un economista italiano di Scuola Austriaca che stimo molto, Francesco Carbone, ha definito come la questione fondamentale da dirimere in un’ottica libertaria, vale a dire la politica monetaria. Come del resto potremmo definire autenticamente liberale/liberista un’economia basata sulla discrezionalità monetaria e la gestione arbitraria dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali (FED in America e BCE in Europa)? L’espansionismo monetario che (ribadiamolo) sta all’origine dell’attuale crisi economica, così come del crack del 1929, non è una questione marginale: è il nocciolo fondamentale del problema, o quanto meno ne è parte integrante. Ignorarla per spirito opportunistico o – non voglio pensarlo - per disonestà intellettuale è probabilmente il peggior errore compiuto da Giannino e da quanti intorno a lui si autoproclamano difensori del libero mercato. Fintanto che non si mette in discussione la sovranità monetaria dei governi e delle banche centrali non si può in alcun modo definirsi tali: o meglio, si può, come fanno gli economisti della Scuola di Chicago, ma con risultati deleteri che rischiano di affossare invece che innalzare i valori di un autentico liberalismo.

P.S.= Leggo in questi giorni con rammarico che Oscar Giannino avrebbe in animo di privatizzare alcune grande aziende mantenendo la golden share (ovvero la “partecipazione d’oro” dello Stato) per “evidenti motivi di utilità nazionale strategica”. Questo è più che essere oppurtunisti: è essere ipocriti.

Nessun commento:

Posta un commento