di Damiano Mondini
Una lunga assenza per impegni scolastici potrebbe anche dirsi giustificata, nel caso in cui la materia di specie si rivelasse interessante e degna d’essere approfondita. D’altra parte, le premesse v’erano tutte, trattandosi di quella Storia contemporanea la cui conoscenza approfondita considero un imperativo categorico. Nondimeno, va considerata altresì un’ulteriore e non indifferente variabile nella nostra analisi, ovverossia che abbiamo a che fare – ahimè inesorabilmente – con la scuola pubblica italiana. Un sostantivo nobile e due aggettivi macabri che anticipano pienamente la misura di quanto sto per raccontarvi. Non ho intenzione di soffermarmi sul tenore del corso, sull’attendibilità dei manuali o su altri dettagli peraltro sostanziali: me ne manca il tempo, oltre che la forza d’animo. Vorrei limitarmi a riflettere sull’ultima lezione, affidata dal docente in carica ad un collaboratore esterno, presentato all’uditorio come “esperto di globalizzazione”, che risponde al nome di Ferruccio Capelli – o Fessuccio, come direbbe Guglielmo Giannini. Costui è autore di un pamphlet edito da Mimesis e intitolato Indignarsi è giusto. In effetti, com’è mestamente prevedibile, si tratta di una riflessione sulle mobilitazioni di massa del 2011, dalla “primavera araba” agli indignados in Spagna, passando per “Occupy Wall Street” negli Stati Uniti.
L’intervento dell'egregio intende rendicontare brevemente sul contenuto della sua fatica letteraria. Con visibile soddisfazione, Fessuccio – perdonatemi, ma la tentazione è troppo forte – esordisce ricordando che il ”Time” ha indicato come “uomo dell’anno” 2011 giustappunto la figura mitologica del protester. Sia detto per inciso, trattasi della medesima rivista che ha recentemente attribuito tale insigne onorificenza al Presidente Obama, tradendo un indirizzo politico neanche troppo velato. La parola cardine è, nemmeno a dirlo, “indignazione”: un sostantivo che comunica un desiderio di protesta unito ad un sentimento di viva inquietudine per il futuro, al contrario della ben più rassicurante “utopia” delle contestazioni degli anni Sessanta. Tuttavia, per citare Obama, the best is yet to come: a questo punto del suo intervento, infatti, Fessuccio ritiene doveroso dover spiegare le ragioni profonde che hanno condotto i giovani di tutto il mondo in piazza a protestare e ad indignarsi; di doverci insomma spiegare il vero significato di questa “grande crisi conseguenza diretta di una globalizzazione fuori controllo”. Il sudore aumenta, mentre la temperatura corporea scende. Subito l’egregio relatore si premura di specificare che l’espressione “globalizzazione fuori controllo” è eccessivamente riduttiva, ed in fondo inadeguata. Fondamentalmente – spiega con fare finanche serioso – l’umanità ha assistito a quattro differenti tipologie di globalizzazione: quella genovese-spagnola successiva alla scoperta dell’America, quella olandese, quella inglese ed infine quella statunitense, dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Quest’ultima globalizzazione deve però essere di necessità scissa in due momenti “profondamente diversi” - aggiunge con corrucciata sofferenza il Fessuccio. Un primo frangente è rappresentato dai trente glorieus, quegli anni fra il ’45 e il ’73 che il “grande storico” Eric Hobsbawm ha definito “età dell’oro”. Le mani cominciano a tremare, il viso tradisce l’ansia repressa con difficoltà. Questi anni gloriosi furono caratterizzati da convergenze armoniose fra le diverse istanze sociali, che si armonizzavano in modo tale da determinare la “quadratura del cerchio”, che consisteva nel contemperare esigenze di crescita economica, di democrazia politica, di omogeneità sociale e di occupazione dei fattori di produzione. Tutto ciò era merito indiscutibile della bontà delle ricette keynesiane adottate con occhiuta arguzia dai governi, nonché dell’oculatezza dei sistemi di Welfare State. Il cuore comincia a battere forte, benché non si tratti esattamente dei sintomi di un innamoramento. Nondimeno, a partire dalla metà degli anni Settanta il mondo ha purtroppo assistito ad una drastica inversione di marcia: nel 1979 - ricorda il Fessuccio visibilmente turbato – in Gran Bretagna le elezioni vengono vinte da Margaret Thatcher, con un programma aggressivo che mira a spaccare le reni al sindacato dei minatori, imperniato sul motto iper-individualista “Io conosco gli individui, non conosco la società”. So che vorreste che mi fermassi a riflettere con calma sull’assurdità inenarrabile di questo comizio, ma ritengo che questo racconto horror sia più efficace se presentato nudo e scevro da giudizi, essendo peraltro già intrinsecamente privo di logica e di buon senso. Nel 1980 – annus horribilis per le sorti della giustizia sociale – le elezioni americane vengono vinte dal repubblicano Ronald Reagan, un “ex attore” noto per aver pronunciato alcuni anatemi aberranti come “Lo Stato non è la soluzione, lo Stato è il problema”, e per voler ridurre il peso dello Stato, “affamando la bestia per ristabilire gli animal spirits del capitalismo selvaggio”. Alle suo spalle, Reagan vanta un nugolo di intellettuali perversi, i neoconservatives, responsabili di quella “seconda guerra fredda” contro l’impero del male la cui dirompenza sarà insostenibile per l’Urss, che cadrà infatti senza potersi difendere pochi anni dopo. Si affretta ad aggiungere Fessuccio dall’alto dello scranno universitario che occupa senza vergogna: “sorge naturalmente spontanea una domanda”. Eh già – penso fra me e me – ne sorgono parecchie di domande. “Come fu possibile che all’equilibrio sociale degli anni precedenti facesse seguito con tale dirompenza una risposta tanto violenta?”. Non era esattamente la richiesta di chiarimento che avrei rivolto a quell’insigne intellettuale, ma è questo il bello delle domande retoriche all’interno di un monologo. Ebbene, si trattò di una chiara risposta delle “classi dominanti” – le classi dominanti, mio Dio, le classi dominanti! – alle sempre maggiori quanto legittime richieste sociali degli anni Settanta. Questa inquietudine profonda delle classi dominanti è peraltro testimoniata – aggiunge Fessuccio con inalterata serietà – da un documento del 1975 redatto dalla Commissione Trilaterale, un misterioso consesso che riunisce i potentati economico-politici di Stati Uniti, Europa e Giappone. Il mio sguardo si fa inebetito e sgomento, anche se lievemente confortato dal notare espressioni simili sui volti dei colleghi studenti. Di fronte all’impennata del petrolio, a seguito della guerra del Kippur del 1973 e del blocco petrolifero decretato dall’OPEC, le potenze occidentali avevano avuto l’ardire di mostrare i muscoli, imponendo in pochi anni in tutto il mondo “capitalista” il medesimo dogma della globalizzazione liberista. “Meno regole ci sono, meglio è”: questo motto viene adottato acriticamente – o forse imposto con la coercizione mefitica e intrigante dei mass media – dal mondo intero; in Italia, in Francia, finanche della comunista Cina, dove gli anni illuminati della “rivoluzione culturale” cedono il campo al grido borghese di “Arricchitevi!”. A nulla servono le ripetute evidenze dell’instabilità del liberismo – la crisi messicana del ’94, quella argentina del ’99, quella russa del 2001, quella della new economy nel 2001: l’avanzata del verbo neoliberista è inarrestabile. E’ necessario – a parere dell’illustre oratore – analizzare nel dettaglio le contraddizione di questa nuova grande trasformazione. La citazione della nota opera di Karl Polanyi non è casuale: una “grande trasformazione” fu infatti quella vissuta dall’Inghilterra nei primi anni della rivoluzione industriale, allorquando lo Stato venne piegato dagli capitalisti alle esigenze della nascente economia di mercato. Ed in che modo lo Stato fu reso lo strumento implacabile della rivoluzione capitalista? Abolendo le poor laws, le leggi dell’epoca elisabettiana che garantivano il mantenimento pubblico dei poveri: in tal modo, questi ultimi vennero “costretti” a lavorare nei nascenti opifici a tutto vantaggio delle classi dominanti, avendo lo Stato tolto loro di che vivere. Siamo senza dubbio alla follia, ma ormai ho la mente troppo affaticata per reagire. Negli anni Ottanta del Novecento si assistette appunto ad una nuova grande trasformazione, che citando un intellettuale politicamente insospettabile, Antonio Gramsci, si potrebbe definire una “rivoluzione passiva”: ovverossia – v’era di che dubitarne, ormai? – una rivoluzione attuata dalle classi dominanti contro il popolo sovrano. Il contrario di ciò che era avvenuto durante la grande revolution française del 1789, allorquando era stato il popolo organizzato a ribellarsi alle catene dell’oppressione di classe. Finanche le forze di sinistra, quelle che “teoricamente avrebbero dovuto opporsi all’avanzata del neoliberismo imperante”, ne furono in realtà contagiate: François Mitterand in Francia, Tony Blair in Inghilterra, Bill Clinton negli USA. Questo grande sommovimento, con tutte le contraddizione che ora si andrà a sviscerare, fu la causa prima ed inesorabile dell’attuale crisi economica. Innanzitutto, abbiamo dinnanzi la pascaliana “eterogenesi del fini”: il mito del progresso inarrestabile ci ha condotti senza ombra di dubbio nel baratro della recessione. Il liberismo avrebbe poi dovuto rafforzare le istanze democratiche, quando invece ha creato concentrazioni di potere economico più grandi degli Stati nazionali, quelle multinazionali le cui attività sfuggono ormai al doveroso controllo democratico del popolo sovrano. La liberalizzazione e l’iper-individualismo hanno creato sì uomini più liberi, ma anche più soli, in un clima di atomizzazione diffusa e di rinnovata divaricazione sociale. La lunga crescita economica ha inoltre provocato innumerevoli disastri ambientali, che solo un’attenta regolamentazione pubblica potrà tentare di arginare. E soprattutto, last but not least, in questi ultimi anni si è imposta un’egemonia culturale, il pensiero unico e dominante del “liberalismo liberista” a cui nessuno è immune, una nuova religione con le sue figure del pantheon: l’autoregolamentazione del mercato – “che non ha sotto nessun profilo riscontro empirico, è solo un assunto precostituito” -, l’individualismo selvaggio, l’economicismo e l’utilitarismo. Tutto questo per disgiungere la libertà dalla giustizia sociale, innalzando al massimo livello la prima e dimenticando la seconda. Ci esorta infine il Fessuccio a ribellarci, ad indignarci di fronte a questa monopolizzazione liberista delle coscienze. Come? Avendo il coraggio di ritrovare la forza del pensiero critico, riscoprendo un punto di vista diverso da quello egoista e antisociale propagandato dall’economia politica sotto evidente macchinazione delle classi dominanti. Dobbiamo insomma costruire una nuova “bussola umanistica”.
L’intervento dell'egregio intende rendicontare brevemente sul contenuto della sua fatica letteraria. Con visibile soddisfazione, Fessuccio – perdonatemi, ma la tentazione è troppo forte – esordisce ricordando che il ”Time” ha indicato come “uomo dell’anno” 2011 giustappunto la figura mitologica del protester. Sia detto per inciso, trattasi della medesima rivista che ha recentemente attribuito tale insigne onorificenza al Presidente Obama, tradendo un indirizzo politico neanche troppo velato. La parola cardine è, nemmeno a dirlo, “indignazione”: un sostantivo che comunica un desiderio di protesta unito ad un sentimento di viva inquietudine per il futuro, al contrario della ben più rassicurante “utopia” delle contestazioni degli anni Sessanta. Tuttavia, per citare Obama, the best is yet to come: a questo punto del suo intervento, infatti, Fessuccio ritiene doveroso dover spiegare le ragioni profonde che hanno condotto i giovani di tutto il mondo in piazza a protestare e ad indignarsi; di doverci insomma spiegare il vero significato di questa “grande crisi conseguenza diretta di una globalizzazione fuori controllo”. Il sudore aumenta, mentre la temperatura corporea scende. Subito l’egregio relatore si premura di specificare che l’espressione “globalizzazione fuori controllo” è eccessivamente riduttiva, ed in fondo inadeguata. Fondamentalmente – spiega con fare finanche serioso – l’umanità ha assistito a quattro differenti tipologie di globalizzazione: quella genovese-spagnola successiva alla scoperta dell’America, quella olandese, quella inglese ed infine quella statunitense, dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Quest’ultima globalizzazione deve però essere di necessità scissa in due momenti “profondamente diversi” - aggiunge con corrucciata sofferenza il Fessuccio. Un primo frangente è rappresentato dai trente glorieus, quegli anni fra il ’45 e il ’73 che il “grande storico” Eric Hobsbawm ha definito “età dell’oro”. Le mani cominciano a tremare, il viso tradisce l’ansia repressa con difficoltà. Questi anni gloriosi furono caratterizzati da convergenze armoniose fra le diverse istanze sociali, che si armonizzavano in modo tale da determinare la “quadratura del cerchio”, che consisteva nel contemperare esigenze di crescita economica, di democrazia politica, di omogeneità sociale e di occupazione dei fattori di produzione. Tutto ciò era merito indiscutibile della bontà delle ricette keynesiane adottate con occhiuta arguzia dai governi, nonché dell’oculatezza dei sistemi di Welfare State. Il cuore comincia a battere forte, benché non si tratti esattamente dei sintomi di un innamoramento. Nondimeno, a partire dalla metà degli anni Settanta il mondo ha purtroppo assistito ad una drastica inversione di marcia: nel 1979 - ricorda il Fessuccio visibilmente turbato – in Gran Bretagna le elezioni vengono vinte da Margaret Thatcher, con un programma aggressivo che mira a spaccare le reni al sindacato dei minatori, imperniato sul motto iper-individualista “Io conosco gli individui, non conosco la società”. So che vorreste che mi fermassi a riflettere con calma sull’assurdità inenarrabile di questo comizio, ma ritengo che questo racconto horror sia più efficace se presentato nudo e scevro da giudizi, essendo peraltro già intrinsecamente privo di logica e di buon senso. Nel 1980 – annus horribilis per le sorti della giustizia sociale – le elezioni americane vengono vinte dal repubblicano Ronald Reagan, un “ex attore” noto per aver pronunciato alcuni anatemi aberranti come “Lo Stato non è la soluzione, lo Stato è il problema”, e per voler ridurre il peso dello Stato, “affamando la bestia per ristabilire gli animal spirits del capitalismo selvaggio”. Alle suo spalle, Reagan vanta un nugolo di intellettuali perversi, i neoconservatives, responsabili di quella “seconda guerra fredda” contro l’impero del male la cui dirompenza sarà insostenibile per l’Urss, che cadrà infatti senza potersi difendere pochi anni dopo. Si affretta ad aggiungere Fessuccio dall’alto dello scranno universitario che occupa senza vergogna: “sorge naturalmente spontanea una domanda”. Eh già – penso fra me e me – ne sorgono parecchie di domande. “Come fu possibile che all’equilibrio sociale degli anni precedenti facesse seguito con tale dirompenza una risposta tanto violenta?”. Non era esattamente la richiesta di chiarimento che avrei rivolto a quell’insigne intellettuale, ma è questo il bello delle domande retoriche all’interno di un monologo. Ebbene, si trattò di una chiara risposta delle “classi dominanti” – le classi dominanti, mio Dio, le classi dominanti! – alle sempre maggiori quanto legittime richieste sociali degli anni Settanta. Questa inquietudine profonda delle classi dominanti è peraltro testimoniata – aggiunge Fessuccio con inalterata serietà – da un documento del 1975 redatto dalla Commissione Trilaterale, un misterioso consesso che riunisce i potentati economico-politici di Stati Uniti, Europa e Giappone. Il mio sguardo si fa inebetito e sgomento, anche se lievemente confortato dal notare espressioni simili sui volti dei colleghi studenti. Di fronte all’impennata del petrolio, a seguito della guerra del Kippur del 1973 e del blocco petrolifero decretato dall’OPEC, le potenze occidentali avevano avuto l’ardire di mostrare i muscoli, imponendo in pochi anni in tutto il mondo “capitalista” il medesimo dogma della globalizzazione liberista. “Meno regole ci sono, meglio è”: questo motto viene adottato acriticamente – o forse imposto con la coercizione mefitica e intrigante dei mass media – dal mondo intero; in Italia, in Francia, finanche della comunista Cina, dove gli anni illuminati della “rivoluzione culturale” cedono il campo al grido borghese di “Arricchitevi!”. A nulla servono le ripetute evidenze dell’instabilità del liberismo – la crisi messicana del ’94, quella argentina del ’99, quella russa del 2001, quella della new economy nel 2001: l’avanzata del verbo neoliberista è inarrestabile. E’ necessario – a parere dell’illustre oratore – analizzare nel dettaglio le contraddizione di questa nuova grande trasformazione. La citazione della nota opera di Karl Polanyi non è casuale: una “grande trasformazione” fu infatti quella vissuta dall’Inghilterra nei primi anni della rivoluzione industriale, allorquando lo Stato venne piegato dagli capitalisti alle esigenze della nascente economia di mercato. Ed in che modo lo Stato fu reso lo strumento implacabile della rivoluzione capitalista? Abolendo le poor laws, le leggi dell’epoca elisabettiana che garantivano il mantenimento pubblico dei poveri: in tal modo, questi ultimi vennero “costretti” a lavorare nei nascenti opifici a tutto vantaggio delle classi dominanti, avendo lo Stato tolto loro di che vivere. Siamo senza dubbio alla follia, ma ormai ho la mente troppo affaticata per reagire. Negli anni Ottanta del Novecento si assistette appunto ad una nuova grande trasformazione, che citando un intellettuale politicamente insospettabile, Antonio Gramsci, si potrebbe definire una “rivoluzione passiva”: ovverossia – v’era di che dubitarne, ormai? – una rivoluzione attuata dalle classi dominanti contro il popolo sovrano. Il contrario di ciò che era avvenuto durante la grande revolution française del 1789, allorquando era stato il popolo organizzato a ribellarsi alle catene dell’oppressione di classe. Finanche le forze di sinistra, quelle che “teoricamente avrebbero dovuto opporsi all’avanzata del neoliberismo imperante”, ne furono in realtà contagiate: François Mitterand in Francia, Tony Blair in Inghilterra, Bill Clinton negli USA. Questo grande sommovimento, con tutte le contraddizione che ora si andrà a sviscerare, fu la causa prima ed inesorabile dell’attuale crisi economica. Innanzitutto, abbiamo dinnanzi la pascaliana “eterogenesi del fini”: il mito del progresso inarrestabile ci ha condotti senza ombra di dubbio nel baratro della recessione. Il liberismo avrebbe poi dovuto rafforzare le istanze democratiche, quando invece ha creato concentrazioni di potere economico più grandi degli Stati nazionali, quelle multinazionali le cui attività sfuggono ormai al doveroso controllo democratico del popolo sovrano. La liberalizzazione e l’iper-individualismo hanno creato sì uomini più liberi, ma anche più soli, in un clima di atomizzazione diffusa e di rinnovata divaricazione sociale. La lunga crescita economica ha inoltre provocato innumerevoli disastri ambientali, che solo un’attenta regolamentazione pubblica potrà tentare di arginare. E soprattutto, last but not least, in questi ultimi anni si è imposta un’egemonia culturale, il pensiero unico e dominante del “liberalismo liberista” a cui nessuno è immune, una nuova religione con le sue figure del pantheon: l’autoregolamentazione del mercato – “che non ha sotto nessun profilo riscontro empirico, è solo un assunto precostituito” -, l’individualismo selvaggio, l’economicismo e l’utilitarismo. Tutto questo per disgiungere la libertà dalla giustizia sociale, innalzando al massimo livello la prima e dimenticando la seconda. Ci esorta infine il Fessuccio a ribellarci, ad indignarci di fronte a questa monopolizzazione liberista delle coscienze. Come? Avendo il coraggio di ritrovare la forza del pensiero critico, riscoprendo un punto di vista diverso da quello egoista e antisociale propagandato dall’economia politica sotto evidente macchinazione delle classi dominanti. Dobbiamo insomma costruire una nuova “bussola umanistica”.
Non mi pronuncio oltre. Vi esorto solo a pensare a quanto nobile sia il fine per cui adempite ai vostri doveri fiscali.
Ciao Damiano, proprio ieri mi è capitata una situazione assurda. Un personaggio, nei commenti ad un post di una conoscenza comune, vomitava una serie di luoghi comuni appresi qua e là, sui temutissimi tea party USA (tipo che addirittura è gente in gran parte convinta che gli USA si sarebbero dovuti alleare con Hitler nella seconda guerra mondiale)
RispondiEliminaIl buon portavoce italiano del TP si premura di chiarire storia, finalità e politica dei Tea Party, qua e là dell'oceano. Non contento l'interlocutore fa un minestrone su destra, fascisti, pidiellini e brutti liberisti che a suo dire avrebbero ridotto alla fame non solo gli operai ma anche i piccoli imprenditori.
A quel punto il portavoce del TP perde la sua proverbiale pazienza, e interviene la conoscenza comune per dolersi dell'alterco, e ci ricorda che il personaggio così ben informato su politica ed economia, è nientemeno che un professore universitario di filosofia, acculturatissimo...
Appunto... acculturatissimo forse, informato mica tanto, ammesso che gli prema essere informato davvero...
Francesco Tedeschi
L'indottrinamento allo statalismo è prassi normale da decenni nella scuola e nelle università italiane. Molti professori vanno addirittura fieri del fatto che usano la cattedra per fare propaganda politica. Una volta ho visto perfino delle maestre delle elementari condurre i bambini a una manifestazione politica....
RispondiEliminaScindere lo Stato dalla scuola deve essere una priorità. Altrimenti le nostre rimarranno sempre null'altro che chiacchiere fra pochi amici al bar. Con affetto,
RispondiEliminaDamiano Mondini