La riflessione di Rothbard sulla guerra evolve da due precise premesse.
1) Dato che essa comporta un omicidio di massa, è necessario limitarla perlomeno agli eserciti in lotta, evitando il coinvolgimento dei civili. Rothbard fa riferimento al vecchio diritto internazionale e alle «leggi di guerra», il cui fine era tutelare i diritti dei cittadini.
«Il principio fondamentale di questo codice era che le ostilità tra popoli civili si dovessero limitare alle forze armate effettivamente impegnate... Esso individuava una distinzione tra combattenti e non combattenti, stabilendo che l'unico compito dei combattenti fosse quello di combattersi gli uni con gli altri e che i non combattenti dovessero essere esclusi dall'ambito delle operazioni militari.»1
Gli Stati moderni conducono abitualmente guerre totali considerandosi in lotta non con l'esercito, ma con l'intero popolo «nemico». Da quando poi l'industria ha iniziato a sostenere massicciamente lo sforzo bellico, produzione e combattimento sono diventate due facce della stessa medaglia: tutti si è in guerra, operai nelle fabbriche e soldati al fronte. L'operaio, infatti, produce il fucile e i proiettili che il fante scaricherà sul nemico. La propaganda americana durante la seconda guerra mondiale era molto esplicita: «Ferma questo mostro [la Germania e il Giappone, n.d.A] che non si ferma dinanzi a nulla. Produci il più possibile. Questa è la tua guerra!». I governi colgono due piccioni con una fava: tengono in costante fibrillazione il «fronte interno» agitando lo spauracchio dell'invasore, e spingono i militari a farsi pochi scrupoli per la sorte dei civili del paese nemico.
Guadagnarsi un vantaggio psicologico prima che militare è una strategia a cui né la Germania di Hitler né l'America di Obama hanno mai rinunciato: da qui il ricorso a raid, violenze e bombardamenti che «fiacchino» il morale della popolazione, inducendo il nemico alla resa. Tutto questo, come si vede, a scapito esclusivo di innocenti.
Guadagnarsi un vantaggio psicologico prima che militare è una strategia a cui né la Germania di Hitler né l'America di Obama hanno mai rinunciato: da qui il ricorso a raid, violenze e bombardamenti che «fiacchino» il morale della popolazione, inducendo il nemico alla resa. Tutto questo, come si vede, a scapito esclusivo di innocenti.
Il pericolo si è fatto più grande da quando i governi hanno messo le mani sulla bomba atomica. Gli ordigni nucleari sono in grado di distruggere indiscriminatamente obiettivi militari e civili; il loro utilizzo pertanto è «un crimine contro l'umanità per il quale non vi è alcuna giustificazione».2
L'unica «difesa» contro queste armi è il deterrente della mutua distruzione assicurata, che ha impedito al mondo di scivolare nella terza guerra mondiale.
Ogni fenomeno bellico, avverte Rothbard, si sviluppa su due direttrici: allo scontro tra Stati («violenza orizzontale») si sovrappongono l'intensificarsi della tassazione di ciascun governo e il rafforzarsi della regolamentazione dell'economia e di misure restrittive di ogni genere. Rothbard parla di «violenza verticale»: la popolazione è costretta ad assumere su di sé tutto il peso del conflitto e sopportare restrizioni sempre più gravi. Al governo servono risorse in quantità, e chi può fornirgliele se non i contribuenti? Quando il nemico è alle porte, i cittadini corrono rischi gravi: è dunque necessario, si dice, restringere le loro libertà in nome della sicurezza. Lo Stato ha dalla sua un apparato coercitivo, e in più diffonde la menzogna che il suo unico interesse sia proteggere i cittadini: così legittimato, non ha difficoltà ad inasprire la spoliazione e limitare la loro libertà. Insomma, aveva ragione Randolph Bourne quando scriveva che «la guerra è la salute dello Stato».
2) Per contenere la durata e alleviare le disgrazie della guerra, sostiene Rothbard, è necessario restringerla anche geograficamente: bisogna evitare cioè l'intervento di nuovi Stati a sostegno dei belligeranti. Come? Spingendo i governi in guerra a concordare un cessate il fuoco, salvaguardando la neutralità di chi non è intervenuto e facendo pressione sui governi interventisti per dissuaderli dai loro propositi. Difendere insomma l'isolazionismo e premere per il ritiro delle truppe dal fronte: è questa la sola «politica estera» in linea con le convinzioni dei libertari. Scrive Rothbard:
«"Isolazionismo" suona di destra; "neutralismo" e "coesistenza pacifica" di sinistra. La loro essenza, tuttavia, è identica: opposizione alla guerra e agli interventi politici fra paesi. Questa, per due secoli, è stata la posizione di coloro che erano contrari alla guerra, sia che fossero i liberali classici del diciottesimo e diciannovesimo secolo, o gli "uomini di sinistra" della Prima guerra mondiale e della Guerra fredda, o gli "uomini di destra" della Seconda guerra mondiale. In pochissimi casi tali antinterventisti hanno sostenuto la necessità di un "isolamento" letterale; in generale, essi sono stati favorevoli al non-intervento politico negli affari delle altre nazioni, e anche all'internazionalismo economico e culturale nel senso di libertà pacifica di commercio, d'investimento e di scambio tra tutti i cittadini di tutti i paesi. E questa è anche l'essenza della posizione libertaria.»3
Thomas Jefferson, convinto isolazionista, intendeva stringere rapporti commerciali con tutte le nazioni, ma era deciso a rifiutare qualunque alleanza che obbligasse la federazione ad impegnarsi in guerra. Purtroppo, dal tempo dei padri fondatori ne è passata di acqua sotto i ponti: la linea di Washington è mutata all'insegna di un massiccio interventismo. Gli Stati Uniti, nel Novecento «baluardo del mondo libero» contro la tirannide (monarchica, nazionalsocialista e comunista) sono diventati nel nostro secolo i «poliziotti del mondo».
L'unico che al Congresso si sia sempre opposto all'interventismo di Washington è il libertario Ron Paul, che ha preteso il rimpatrio dei soldati dall'Afghanistan e dall'Iraq; il democratico Obama si è dimostrato guerrafondaio quanto il repubblicano Bush. Ma quali sono le effettive controindicazioni di una politica estera che mira alla «sicurezza collettiva», e quindi a combattere con decisione gli Stati-canaglia? Rothbard immagina che il paese di Graustark abbia invaso Belgravia, e che un terzo Stato, Walldavia, scenda in guerra in difesa di Belgravia: così si comporta una potenza imperialista quando teme che i suoi interessi siano in pericolo in una determinata regione. Procede poi con la sua argomentazione:
«Se Walldavia, o qualsiasi altro Stato, si butta nella mischia, non fa altro che estendere e aggravare la portata dell'aggressione, perché: 1) massacra ingiustamente la massa dei civili graustarkiani, e 2) aumenta la coercizione delle tasse ai danni dei cittadini walldaviani. Inoltre, 3) in una età in cui gli Stati e i loro cittadini sono identificati gli uni con gli altri, Walldavia espone i propri cittadini al pericolo di un'azione di rappresaglia graustarkiana. Quindi, l'entrata in guerra di Walldavia mette in pericolo quelle stesse vite e proprietà dei cittadini walldaviani che il governo dovrebbe invece difendere. Infine, 4) aumenta l'intensità della coscrizione-schiavitù dei walldaviani.»4
Gli esiti disastrosi del neo-imperialismo americano e sovietico sembrano confermare le tesi dello studioso newyorkese.
[continua]
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Note
1. Murray Rothbard, L'etica della libertà (Macerata, Liberilibri 1996) p. 309
2. Ibidem, p. 304
3. Murray Rothbard, Per una nuova libertà (Macerata, Liberilibri 2004) p. 352
4. Ibidem, p. 357
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