Di David Gordon (traduzione di Tommaso Cabrini)
Grant sconfisse
Lee, la Confederazione
si sbriciolò, e l’idea di secessione scomparve per sempre, o perlomeno questo è
quanto l’opinione comune dice. La secessione non è storicamente irrilevante, semmai,
al contrario, l’argomento è parte integrante del liberalismo classico. Anzi, il
diritto di secessione deriva a sua volta dai diritti difesi dal liberalismo
classico. Come persino gli alunni di Macaulay sanno, il liberalismo classico
inizia con il principio di auto-proprietà: ognuno è proprietario del proprio
corpo. Inoltre, secondo i liberali classici, da Locke a Rothbard, esiste il
diritto di appropriarsi della “cosa di nessuno”.
In questa
visione lo Stato occupa un ruolo rigorosamente secondario, questi esiste solamente
per proteggere i diritti che gli individui possiedono indipendentemente da esso,
e non rappresenta la fonte di tali diritti. Come scrive la Dichiarazione
d’Indipendenza degli Stati Uniti: “per assicurare tali diritti [alla vita, alla
libertà e alla ricerca della felicità], sono stati istituiti tra gli uomini gli
stati, derivando i loro legittimi poteri dal consenso dei governati."
Ma cos’ha
tutto questo a che fare con la secessione? La connessione è ovvia: se lo Stato
non protegge i diritti degli individui allora gli individui possono
interrompere la loro fedeltà verso lo Stato, ed una forma che questa
interruzione può prendere è la secessione: un gruppo è in grado di rinunciare
alla lealtà verso il proprio Stato e formarne uno nuovo. (Non si tratta,
ovviamente, dell’unica forma possibile: una fazione può rovesciare il governo
invece di ripudiare la sua autorità su di essi.)
La
Dichiarazione di Indipendenza
adotta esattamente questa posizione: qualora un governo "ponga in pericolo il raggiungimento di questi fini, il popolo ha
il diritto di modificarlo o abolirlo." Ma i coloni americani non
tentarono di abolire il governo britannico, piuttosto essi lo modificarono
rimuovendo le colonie dalla sua autorità. In breve, si sono separati dalla Gran
Bretagna. In quanto tale, il diritto di
secessione, forma le fondamenta della legittimazione degli Stati Uniti
d’America. Negate ciò, e dovrete rigettare le fondamenta americane.
Qualcuno,
a questo punto, potrebbe opporre un’obiezione. Al di là della propria opinione
su Jefferson ed il Congresso Continentale, è incoerente accettare il diritto
naturale, come concepito dai liberali
classici, ma rifiutare di riconoscere il diritto di secessione? In particolare: gli individui hanno diritti
naturali, ma una volta scelto uno Stato sono indissolubilmente legati ad esso. In
risposta a questa obiezione dobbiamo distinguere due casistiche.
Primo, chi
sostiene questa posizione deve considerare che, persino se lo Stato violasse i
diritti che è stato creato per assicurare, i suoi sudditi non potrebbero
andarsene. Ma questa è una opinione davvero strana: lo Stato esiste per certi
scopi, ma potrebbe lavorare indisturbato persino se agisse contro questi scopi
originari.
A ciò si
può replicare che per proteggere i diritti individuali si può fare riscorso a
mezzi diversi dalla secessione. Bisogna concedere a questo punto di vista che
le alternative alla secessione ne diminuiscono la necessità. Dopotutto
se uno Stato può opporre la sua autorità per bloccare un provvedimento del
governo federale, perchè gli deve essere concesso anche il diritto di
andarsene?
Questo
punto di vista, credo, ha una consistenza logica, ma è poco raccomandabile. Perché
mai le persone dovrebbero rinunciare a questo potentissimo mezzo per tenere lo
Stato sotto controllo? Agire in questo modo lascia i loro diritti naturali,
riconosciuti nella teoria, negati nella pratica. Infine possiamo dire questo:
coloro che negano il diritto di secessione hanno l’onere di provare logicamente
il loro punto di vista. Perché mai i fautori dei diritti naturali ripudiano il
diritto di secessione?
Gli
oppositori alla secessione, comunque, possono prendere una posizione meno
estrema. Possono concedere che la secessione dovrebbe essere ammessa nel caso
in cui lo Stato violi i diritti individuali, ma non negli altri casi. Una
fazione non può rinunciare ad una autorità debitamente costituita solo perche
preferirebbe essere governata da altri. Non dice la stessa Dichiarazione
d’Indipendenza che i governi non devono essere sostituiti per “motivi futili e
passeggeri”?
Questa
posizione, senza dubbio, è più forte del totale ripudio della secessione, ma ci
dobbiamo ancora un’altra volta domandare: Qual è la sua giustificazione? A
prima vista, pensare che una fazione possa fuoriuscire dall’autorità statale a
piacimento, appare maggiormente in linea con la visione, meramente funzionale,
dello Stato tipica del liberalismo classico. Per negare ciò si insinua che lo
Stato non è un mezzo per garantire i diritti. Così come nessuno è obbligato a
continuare ad acquistare un servizio da un’azienda, ma può cambiare scegliendo
un altro fornitore, perche un gruppo non può decidere di cambiare agenzia di
protezione?
Inoltre la Dichiarazione di
Indipendenza non deve essere letta come favorevole ad un diritto di secessione
limitato. Il passaggio che si riferisce a motivi futili e passeggeri fa parte
di un ragionamento a proposito di quando il cambio di Stato sia prudente, ma la
questione che ci assilla non è la prudenza, ma il diritto. L’esercizio di molti
diritti individuali è imprudente – potrei avere il “diritto” di camminare davanti
ad un’auto che sopraggiunge se il semaforo è verde — ma io possiedo tali
diritti a prescindere da ciò. Così una fazione può secedere imprudentemente e
agire nel pieno dei suoi diritti. Ancora una volta : se così non fosse, perché
mai?
Il
discorso può avanzare di un ulteriore passo. Immaginiamo che un gruppo, che
desideri secedere, sia colpevole di violazione dei diritti individuali. Avrebbe
ancora il diritto di secedere? Non vedo perché no. Naturalmente non si dovrebbero
violare i diritti individuali, ma perché, per il fatto che quel gruppo agisca
in questo modo, obbligarlo a sottomettersi ad uno Stato al quale non vuole più
obbedire?
Allen
Buchanan, il cui libro Secession è la più influente discussione su tale
argomento nella filosofia statunitense contemporanea, rifiuta la legittimità
della secessione sudista del 1861 con le argomentazioni suggerite in
precedenza.[i] Poiché la schiavitù viola i diritti nessuno
stato schiavista ha diritto di lasciare l’Unione. Ma perchè giunge a queste
conclusioni? (Incidentalmente Buchanan ritiene che la secessione sudista, se
fosse stata assente la schiavitù, sarebbe giusicabile.) Ovviamente la
dissertazione di Buchanan sul caso sudista ha guadagnato una grande attenzione
nelle argomentazioni dei secessionisti sudisti contemporanei.
Possiamo
individuare una casistica ancora più difficoltosa. Immaginiamo che un gruppo
che viola i diritti individuali seceda. Può il loro ex Stato interferire solo
nella misura necessaria ad assicurare i diritti a coloro che sono stati messi a
rischio dalla secessione?
Anche qui
dobbiamo fare un caveat. Il tentativo
di resistere alla secessione può portare alla violazione stessa dei diritti, e
i benefici dell’intervento devono essere soppesati accuratamente con i loro
costi. Anche se uno concorda con Locke che esista un generico diritto a far rispettare il diritto
naturale, ciò non da vita ad alcun dovere
di farlo.
Robert
Barro, un importante economista facente parte del movimento delle “aspettative
razionali”, ha arricchito questa argomentazione con perspicacia. Naturalmente,
durante la Guerra Civile,
il governo di Lincoln non ha agito solamente per assicurare i diritti degli
schiavi. Ma supponiamo che l’abbia fatto, ciò avrebbe giustificato l’uso della
forza per resistere contro la secessione?
No, dice
Barro, se si considerano i costi di opporsi:
“La
Guerra Civile Americana, di gran lunga il più costoso
conflitto di sempre per gli Stati Uniti […] causò oltre 600.000 vittime tra i
militari, un numero sconosciuto di
vittime tra i civili, e danneggiò gravemente l’economia del sud. Il reddito
pro-capite andò da un livello prebellico di circa l’80% di quello del nord […]
a circa il 40% dopo il conflitto. Ci volle più di un secolo dalla fine della
Guerra, nel 1865, perchè il reddito pro capite nel sud tornasse l’80% di quello
del nord.” [ii]
Ma,
bisogna replicare, questa citazione di Barro
non affronta il punto in discussione. Nessuno nega i costi della Guerra Civile,
ma la nostra questione riguarda la giustificazione: qualcuno ha il diritto di interferire con un gruppo
secessionista che viola i diritti?
Il punto
sollevato da Barro è rilevante. I
costi di un’azione non possono essere eliminati come irrilevanti per la moralità. Tutto
ciò è ancor più vero se si tiene conto di un’altra questione che Barro solleva.
L’affermazione, ancora una volta, è che la Guerra Civile dimostra
(o comunque dovrebbe dimostrare se fosse stata condotta in modo differente) la
tesi che la secessione può essere bloccata per proteggere i diritti individuali.
Barro ne
fa la tipica questione da economista, l’obiettivo di difendere i diritti
individuali avrebbe potuto essere assicurato con mezzi meno costosi.
“Tutti sarebbero stati meglio se l’eliminazione della
schiavitù fosse stata portata a termine comprando l’appoggio dei proprietari di
schiavi – così come fecero i britannici con gli schiavi delle Indie Occidentali
negli anni 30 dell’800 – invece di muovere guerra.” [iii]
E cosa
dire se questa proposta fosse scartata come irrealistica? Cosa sarebbe successo
alla schiavitù se alla Confederazione fosse stato permesso di secedere
pacificamente? Barro suggerisce che ben presto la schiavitù sarebbe giunta a
termine comunque. Qui una discussione molto dettagliata dello storico Jeffrey
Hummel che da supporto alle idee di Barro:
“Nessuna abolizione fu completamente pacifica, ma gli
Stati Uniti ed Haiti sono solo due su una ventina di società schiavistiche dove
la violenza predominò. Il fatto che l’emancipazione raggiunse economie dove ben
radicata era la piantagione, come Cuba e il Brasile, suggerisce che la
schiavitù fosse comunque politicamente moribonda. Le speculazioni storiche in
merito ad una Confederazione indipendente in grado di fermare ed invertire
questo forte trend storico sono ben poco credibili.” [iv]
Ma non
abbiamo seguito la questione da un fronte troppo ravvicinato? Per quanto
malaccorta fosse la politica nordista durante la Guerra Civile, ciò
non è sufficiente a mostrare che ogni
resistenza alla secessione, con lo scopo di difendere i diritti individuali,
sia senza giustificazione. Qui, per una volta, acconsento all’obiezione, ma
coloro che desiderano opporsi alla secessione in casi come questo devono
mostrare in che modo la loro modalità d’intervento proposta possa evitare i
costi che il nostro esempio illustra.
Ad un
certo punto, temo, questa analisi della secessione si presta apertamente ad
incomprensioni. La secessione ha origine dai diritti individuali: non ho
tentato di difenderla come un diritto collettivo non riducibile ai diritti
individuali. Di conseguenza, in nessuna maniera ne consegue che la maggioranza
di coloro che vivono in un dato territorio possa obbligare altri residenti a
secedere se questi non desiderino farlo. La questione non è di maggioranza o
minoranza bensì di individui. Così gli argomenti qui proposti non dipendono in
alcun modo da presupposti “democratici”.
La
questione è stata trattata con insuperabile chiarezza da uno dei principali
liberali classici, Ludwig von Mises.
“Il diritto di autodeterminazione significa questo:
ovunque gli abitanti di un particolare territorio, sia esso un singolo comune,
un intero distretto o una serie di distretti adiacenti, fanno sapere, attraverso
libere votazioni, che essi non desiderano più restare uniti allo Stato al quale
appartengono fino ad ora […] I loro desideri devono essere rispettati e
assecondati.” [v]
Mises
enfarizza il fatto che tale diritto si
“estende agli abitanti di ogni territorio sufficientemente ampio
da formare un’unità amministrativa indipendente. Se fosse in ogni modo
possibile garantire questo diritto di autodeterminazione ad ogni individuo,
dovrebbe essere fatto.” [vi]
Una volta
afferrato il punto di Mises, la fallacia in un’argomentazione spesso ripetuta
diviene apparente. Qualcuno ha sostenuto che la Confederazione agì
“non democraticamente” nel rifiutare di accettare il risultato delle elezioni
del 1860. Lincoln, dopotutto, ricevette la maggioranza relativa dei voti
popolari del Paese.
Per un
Misesiano la risposta è ovvia: e allora? Una maggioranza (tanto meno una
maggioranza relativa) non ha alcun diritto di forzare i dissenzienti. Inoltre,
l’argomentazione viene meno nei suoi stessi termini. Non è “non
democratico” secedere. La Confederazione, infatti, non negò che Lincoln fosse il legittimo presidente
eletto. La democrazia dovrebbe obbligare i sudisti solo a riconoscere
l’autorità di Lincoln se essi avessero deciso di rimanere nell’Unione.
Ma ora
sorge un problema. Ho tentato di difendere la secessione dal punto di vista dei
diritti individuali. Come è risaputo, Mises non riconosce i diritti naturali.
Temo che, come Jeremy Bentham, egli consideri la Dichiarazione dei
Diritti come un nonsense. Perchè allora Mises accetta l’autodeterminazione?
Il
ragionamento di Mises è particolarmente incisivo. Se le persone sono obbligate
a rimanere sotto un governo che non ha scelto allora il risultato più probabile
sarà lo scontro. Riconoscere il diritto a secedere “è l’unica possible ed
efficace via di prevenire le rivoluzioni e le guerre civili e tra nazioni.[vii] L’argomentazione di
Mises non si basa sul diritto naturale, ma è naturalmente coerente con
l’approccio che ho descritto per sommi capi. Indipendentemente dalla teoria
morale di ciascuno di noi, è sicuramente un forte punto a favore di una
opinione il fatto che essa abbia conseguenze benefiche.
Articolo apparso anche su http://www.dirittodivoto.org
[i] Allen Buchanan, Secession: The Morality of Political Divorce from Fort Sumter to Lithuania
and Quebec (Boulder, Colo.: Westview, 1991).
[ii] Robert J. Barro, Getting It Right: Markets and Choices (Cambridge,
Mass.: MIT Press, 1996), pp. 26–27.
[iii] Ibid., p. 28. Several of my remarks have been adapted from David Gordon,
"In Defense of Secession," review of Getting It Right: Markets and
Choices, by Robert J. Barro, The Mises Review 3, no. 1 (Spring
1997): 1–5.
[iv] Jeffrey Rogers Hummel, Emancipating
Slaves, Enslaving Free Men (Peru, III.: Open Court, 1996), p. 352.
[v] Ludwig von
Mises, Liberalism: In the Classical Tradition (Irvington-on-Hudson,
N.Y.: Foundation for Economic Education, 1985), p. 109.
[vi] Ibid., pp. 109–10.
[vii] Ibid., p. 109.
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