di Luigi Angotzi*
L'istinto dell'uomo, che è stato definito come un animale sociale, è intrinseco alla sua natura ed egli viene indirizzato da questo come una guida che gli suggerisce le decisioni da intraprendere. Tra gli istinti più importanti, se non il più importante essendo la summa di molti altri, c’è l’istinto alla felicità o per meglio dire alla sua ricerca, un cammino [1] interiore che durerà per tutta la vita, e che non smetterà mai di essere percorso. Una ricerca che può essere descritta come un cibo che alimenta l’uomo tenendolo in vita dalla tenera età fino alla vecchiaia e di cui non sarà mai sazio.
Non starò qui però a fare una lista di definizioni su cosa sia la felicità o di come attraverso diverse strade la si possa raggiungere: ognuno è libero di percorrere ogni sentiero, e sono piuttosto la riduzione o la mancanza di libertà che ne ostacolano il cammino ed il raggiungimento finale.
Infatti per l'uomo la conquista della felicità è sempre stata un percorso difficile, sopratutto perché per ottenerla doveva trovare un equilibrio tra il suo interesse e quello della controparte. Solitamente questa controparte era rappresentata da altri uomini, ed essendo l’uomo un animale sociale, egli aveva una naturale indole nel cercare sempre l'aiuto di altri uomini per il raggiungimento del suo scopo personale, un legame che si creava perché ognuno autonomamente decideva di stringerlo, libero poi di rinnovarlo o di scioglierlo.
Infatti per l'uomo la conquista della felicità è sempre stata un percorso difficile, sopratutto perché per ottenerla doveva trovare un equilibrio tra il suo interesse e quello della controparte. Solitamente questa controparte era rappresentata da altri uomini, ed essendo l’uomo un animale sociale, egli aveva una naturale indole nel cercare sempre l'aiuto di altri uomini per il raggiungimento del suo scopo personale, un legame che si creava perché ognuno autonomamente decideva di stringerlo, libero poi di rinnovarlo o di scioglierlo.
Sicuramente non tutti questi accordi possono essere andati a buon fine e potrebbero anche essere sfociati in conflitti con tutte le varie conseguenze del caso, ma mai nulla di così negativo di quanto potesse compiere un soggetto giuridico chiamato Stato e che potesse giustificare la povertà, la schiavitù e le morti da esso provocate.
Da quando da cinquecento anni a questa parte esistono gli Stati, questi non hanno fatto altro che mettersi di traverso ostruendo il libero cammino dell’individuo verso la meta rappresentata dal raggiungimento della propria felicità. Infatti in tutti questi anni abbiamo assistito ad una intromissione sempre più ingiustificata da parte dello Stato e dei suoi fautori, con gli spiacevoli risultati cui si accennava prima.
Insomma, gli Stati si fanno coercitivamente monopolisti della felicità personale dei cittadini a scapito di una felicità collettiva mai raggiunta, solo essi la possono creare ed i soggetti che spingono ad un tale sistema si sentono filantropi dell’umanità: una volta riusciti nel loro intento pretendono la contropartita e passano a battere cassa, cioè si mettono al comando di questo ente ricevendo lauti compensi, e lo dirigono secondo i propri interessi al punto tale da dimenticare o peggio passare sopra agli interessi degli altri individui.
Insomma, gli Stati si fanno coercitivamente monopolisti della felicità personale dei cittadini a scapito di una felicità collettiva mai raggiunta, solo essi la possono creare ed i soggetti che spingono ad un tale sistema si sentono filantropi dell’umanità: una volta riusciti nel loro intento pretendono la contropartita e passano a battere cassa, cioè si mettono al comando di questo ente ricevendo lauti compensi, e lo dirigono secondo i propri interessi al punto tale da dimenticare o peggio passare sopra agli interessi degli altri individui.
Quindi in sostanza lo Stato non è altro che un accentramento di potere che fa solo i propri interessi o al massimo di quei soggetti vicino ad esso, mentre ci illude con una realtà quotidianamente edulcorata, che però non corrisponde ai nostri sogni o alla nostra idea di felicità. Quello messo in atto è un imbroglio perpetrato con astuzia, stillando di tanto in tanto qualche gentilezza affinché si tenga l’individuo sempre agganciato al loro amo, illudendolo ancora una volta con la speranza che arriverà il cambiamento ad un metodo errato di gestione della felicità personale.
Ma una azione di cambiamento non potrà mai esserci, perché questo vorrebbe dire rovesciare i ruoli, e la loro unica azione sarà sempre quella di mantenere il potere conservando un rapporto verticistico di comando per cui chi sta sopra ha la facoltà di decidere per chi sta sotto; i primi impongono le decisioni i secondi le subiscono, chi è succube non è libero e quindi non potrà essere indipendente di fare o cercare la sua felicità.
Gli Stati quindi si arrogano il diritto (privandolo ai cittadini) di decidere (per loro) cosa sia giusto o sbagliato, quali siano i valori ed i principi da osservare, pena l’uso della coercizione, limitando di fatto la libertà personale dei singoli e facendo loro rinunciare alla propria idea di felicità.
Come si può comprendere questo sistema nega in sostanza la felicità individuale, facendo scaturire poi una serie di domande pratiche sulla gestione attuata per il raggiungimento del fine prefissato. Ad esempio, essendo la collettività composta da individui, allora come può lo Stato creare e gestire la felicità se poi le sue azioni si rivoltano contro i singoli cittadini ? [2]
Come può lo Stato avere tutte le informazioni necessarie per gestire la vita socio-economica dei cittadini se questi sono decentrati dalla sua autorità ? [3]
Ed ancora, se lo Stato pretende di fare felici i suoi cittadini allora perché non stampa soldi per tutti?
Perché impone un sistema democratico in cui le scelte da lui caldeggiate vincono sempre, per poi giustificarsi col principio di maggioranza? Di conseguenza per le minoranze non ci sono diritti, non ci sono sogni, non c’è felicità, devono sottostare alle decisioni prese sopra le loro teste.
Perché impone un sistema democratico in cui le scelte da lui caldeggiate vincono sempre, per poi giustificarsi col principio di maggioranza? Di conseguenza per le minoranze non ci sono diritti, non ci sono sogni, non c’è felicità, devono sottostare alle decisioni prese sopra le loro teste.
Tutta questa serie di interrogativi irrisolvibili ci fa ben capire che il sistema Stato non può funzionare e perciò non può essere di aiuto all’individuo impegnato nella ricerca della propria felicità, limitandone la libertà nel soddisfare se stesso.
Tuttavia è interessante sapere che tali riflessioni sono state fatte anche in passato in previsione della gestione negativa che avrebbe potuto compiere lo Stato nella amministrazione collettiva della vita dei singoli cittadini; infatti nei primi documenti delle Costituzioni degli Stati Uniti d’America si enunciò per iscritto il diritto “alla ricerca libera e propria della felicità” per cercare di arginare l’influenza dello Stato nell’esercizio della propria esistenza. Certo, per come sono andate le cose possiamo dire che partirono bene ma che poi nei secoli si persero per strada; è in ogni caso importante che tale principio esista e venga comunque divulgato.
Avviandomi infine alla conclusione, il ragionamento che ritengo più opportuno da fare è quello che considera la persona come l’unica titolare della propria vita e di conseguenza dei propri diritti; essa può essere guidata solo da quell’istinto naturale che possiede ogni uomo, egli soltanto può essere l’artefice del raggiungimento della sua felicità, nessun altro.
Note
[1] = Con tale espressione mi son voluto ricollegare volontariamente al nome del blog che mi ospita (The road to Liberty) per creare un legame fra i temi che vengono trattati e la mia riflessione.
[2] = Con questa frase mi rifaccio al pensiero di Ayn Rand, autrice della immensa e straordinaria trilogia La rivolta di Atlante: “La più piccola minoranza al mondo è l'individuo. Chiunque neghi i diritti dell'individuo non può sostenere di essere un difensore delle minoranze”.
[3] = Questa argomentazione appartiene al famoso economista di Scuola austriaca Friedrich von Hayek, secondo cui: “Qualsiasi economia centralizzate e pianificata, ossia decisa a tavolino da un individuo o da un gruppo di individui, i quali decidono la distribuzione delle risorse, è perdente in partenza, in quanto un unico individuo o un gruppo di individui, dall'alto della loro posizione centrale e centralizzata, non hanno abbastanza informazioni per creare un'allocazione ottimale delle risorse”.
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