di Damiano Mondini
La vittoria di Pierluigi Bersani era tutto sommato prevedibile, anche se certamente non ci si aspettava un risultato così inequivocabile: il 60,8% degli elettori del centrosinistra ha convenuto di affidarsi all’ “usato sicuro”, mentre soltanto uno sconsolante 39,2% ha tentato di deviare verso nuovi orizzonti. Nuovi, si fa per dire: si è già avuta occasione di rilevare quanto poco credibile fosse la scelta fra due alternative tanto distanti nella forma quanto simili nella sostanza. Ed è quest’ultima che conta, che fa la differenza, che determina l’apprezzabilità o meno di un soggetto politico. Matteo Renzi è stato – o è, se preferite non azzardare ancora giudizi terminali sulla sua parabola – senza dubbio un ottimo contenitore, l’utile packaging mediante cui veicolare idee e propositi variegati e più o meno condivisibili. Al di là dei propositi utopistici, era quanto di più moderno e rinfrescante potesse emergere dalle fila stantie del Partito Democratico; l’opzione più liberista che potesse fornire uno schieramento storicamente orientato su posizioni stataliste, welfariste o keynesiane che dir si voglia – sia detto per inciso, non si tratta certo di sinonimi, ma il disordine lessicale dei progressive ci consente di confonderli senza tema alcuna. Non è per coerente e ponderato appoggio alle sue svariate proposte che numerosi libertari – repetita iuvant, me compreso – hanno scelto di appoggiarlo tanto al primo quanto a ragion veduta al secondo turno delle primarie.
Del resto, per quanto timidamente liberale per gli standard del PD, Renzi si rivela impregnato del socialismo più mainstream se osservato con gli occhi impietosi di un libertario, o anche solo di un liberale coerente. Personalmente, posso dire di aver posto una croce sul suo nome fondamentalmente per due motivi: in primo luogo, per apprezzamento considerevole del succitato ruolo di simulacro valido e carismatico – magari i libertari potessero vantare un personaggio simile, una sorta di Ron Paul italiano! L’ho fatto altresì per comunicare mediante il voto l’insofferenza nei confronti dell’establishment del suo partito, di quelli limitrofi e finanche di quelli profondamente distanti. La mia è stata primariamente una burla ai danni dell’assetto democratico corrotto di questo Paese, ed in modo particolare della sua diligente dirigenza. Non avendo creduto in Renzi come alternativa concreta e affidabile allo status quo, non sono particolarmente rattristato per il risultato bulgaro del ballottaggio. Pare che la mia disillusione nei confronti delle consultazioni politiche sia una costante, già rilevata ai tempi della vittoria di Obama e della sconfitta di Romney. In entrambi i casi abbiamo perso, ma la consolazione – certamente relativa e invero poco consolante – è che avremmo perso in ogni caso. Se la Presidenza degli States fosse stata raggiunta dai Repubblicani e la leadership del centrosinistra fosse stata guadagnata dai renziani, poco sarebbe cambiato nella sostanza delle cose. Tutt’al più, avremmo potuto toglierci lo sfizio di assistere al democratico sdegno e alla civilissima preoccupazione dei media nei confronti di una nuova “svolta liberista” su scala mondiale, come se Renzi e Romney fossero le reincarnazioni ideali della Thatcher e di Reagan. Continuiamo dunque ad essere amareggiati per il destino che ci attende, consapevoli di ritrovarci sempre e comunque all'alba della medesima era, ma nella certezza che per cambiare rotta non basta apporre una croce su un simbolo piuttosto che su un altro.
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