di Damiano Mondini
Ieri sera (11 ottobre) si è tenuta presso l’Auditorium della sede de Il Sole 24 Ore a Milano una manifestazione culturale di grande efficacia emotiva. Radio 24, in collaborazione col London Short Film Festival, ha contribuito alla realizzazione di cinque cortometraggi, presentati in occasione del Festival delle Lettere 2012. Scopo della kermesse, rivalutare la lettera come strumento comunicativo, artistico ed espressivo. Il tema, quanto mai di attualità: la crisi economica, vista cogli occhi di chi l’ha vissuta e continua a viverla sulla propria pelle; artigiani, lavoratori autonomi e piccoli e medi imprenditori, vittime di cattivi pagatori, di uno Stato iniquo ed esoso, di un sistema bancario in cortocircuito fra insolvenza tecnica e credit crunch. Il soggetto adattato, cinque lettere scelte fra le centinaia pervenute alla redazione di Radio 24 per l’iniziativa Disperati mai.
Lanciata ad aprile in tandem da Oscar Giannino (conduttore di Nove in punto) e Sebastiano Barisoni (conduttore di Focus Economia), è la risposta della radio al tragico dilagare di suicidi fra una popolazione martoriata nel corpo, nello spirito e nel portafoglio dalla congiuntura economica, aggravata peraltro dal comportamento irresponsabile dello Stato. Nella presentazione dei cinque brevi filmati, il direttore di Radio 24, Fabio Tamburini, ha ricordato brevemente la genesi dell’iniziativa: inizialmente vista come una grande opportunità di indagare il fenomeno, si scontra presto col timore di divenire anch’essa una cassa di risonanza, col rischio di amplificare il problema invece che arginarlo; d’altro canto, l’esigenza di superare l’indifferenza, il muro del silenzio e il pericolo dell’isolamento, unita alla volontà di raccontare i fatti e di dare conforto alla disperazione, ha definitivamente convinto il board della radio ad intraprendere questa delicata avventura. Ed è così che, racconta Tamburini, la redazione è stata “travolta” da lettere, e-mail, telefonate che traducono dolore, solitudine, vergogna, senso di inferiorità e di inadeguatezza, come se si trattasse di un fallimento personale e non dell’effetto di un sistema perverso. Di questo si tratta, invece: di un macrofenomeno sociale, largamente indipendente dalle volontà e dalle capacità dei singoli individui coinvolti. Le lettere, in gran parte “toccanti, commoventi e sconvolgenti”, hanno reso evidente la necessità di socializzare e combattere il problema, nel tentativo di spronare le persone all’orgoglio e alla voglia di lottare e rimettersi in gioco. L’intervento di Sebastiano Barisoni ha fornito un’ulteriore chiave di lettura del dramma: accanto alla solitudine e alla sconfitta, assume rilevanza centrale la perdita di dignità e di rispetto sociale conseguenti al fallimento, una sconfitta morale tale da rendere il suicidio una scelta largamente preferibile. Lo sguardo dei figli, intriso di commiserazione, contribuisce a vulnerare in modo spesso irreparabile la psicologia delle vittime della crisi. Più dell’effettivo danno economico, più dell’erosione del guadagno, più del “decremento della produttività marginale del capitale”, sono la vergogna e la perdita di autostima a spingere le persone a prospettare scenari terminali per la propria esistenza. La lezione che come italiani dovremmo apprendere, continua Barisoni, è che il fallimento imprenditoriale esiste ed è da considerare, ma non ha nulla a che spartire con un deragliamento personale: negli Stati Uniti quando un’attività fallisce si chiude e se ne riapre un’altra con disinvoltura; al contrario, in Italia il fallimento è un marchio sociale che ci si porta appresso per tutta la vita, cosicché chi è più sensibile alla vergogna finisce per preferire la strada dell’autolesionismo. Preoccupante è anche il “silenzio assordante” delle istituzioni, alle quali non si chiede certo un intervento diretto, una politica di sussidi, un fido o un finanziamento: si auspica semplicemente la volontà di ascoltare un Paese che soffre, e di cercare nei limiti del possibile di attenuarne il dolore. Al contrario, mentre la gente muore, anche letteralmente, la politica continua a sprecare, a vivere in un mondo tutto suo, a “magnare e scopare”: per questo, suggerisce Barisoni con un vivace consenso del pubblico, lo slogan dovrebbe essere Disperati mai, indignati sempre. L’accusa di populismo, sovente rivolta ad argomentazioni di questo genere, è in realtà lo strumento di autodifesa di una “casta che sta già pensando di fottervi!”. In realtà, di fronte ad un Paese che si impoverisce sempre di più mentre la classe politica continua senza remore il suo gioco perverso, il giudizio civico deve diventare necessariamente un giudizio politico, di aspra e sincera condanna. Disperazione, rabbia, indignazione dunque, ma anche speranza: la speranza di un mercato e di un’economia reale che non hanno creato la crisi, ma che l’hanno soltanto subita. Naturalmente, sulla causalità della crisi le posizioni sono varie e discordanti, ma è un fatto insindacabile che essa riguardi precipuamente il “mercato finanziario” e le sue dinamiche internazionali: la politica monetaria espansiva della Fed, un sistema bancario intimamente corrotto, una deregolamentazione finanziaria operata nel 1999 in nome del malinteso "liberismo" di Chicago, il permanere di “lacci e laccioli” pubblici che frenano il dispiegamento delle libere forze del mercato. A ciò si aggiunga, come sottolinea Barisoni, la specificità italiana: un sistema di piccole e medie imprese parcellizzate incapaci di rispondere con forza, almeno nell’immediato, agli scossoni congiunturali; un eccesso di irrigidimento del sistema fiscale nei confronti di quegli autonomi e piccoli imprenditori considerati dall’Agenzia delle Entrate ipso facto evasori fiscali, e pertanto nemici del consorzio sociale; l’indecenza di uno Stato pessimo pagatore di quei privati che vantano crediti nei suoi confronti, e che al contempo vengono vessati con scientifica puntualità dal braccio armato di Equitalia. Insomma, conclude Barisoni fornendo un’efficace sintesi della versione italiana della crisi economica: “Abbiamo sì un problema di finanza, ma anche di Guardia di Finanza”. Giungendo al termine della serata, è il momento di trarne la morale: essa consiste nella riscoperta dei valori della vita e della famiglia, ragioni di vivere ben più consistenti del denaro e della rilevanza sociale; ferma è anche la condanna di gesti estremi come il suicidio, condanna suggellata dalla testimonianza di una figlia orfana della crisi. Il suo dolore, l’odio nei confronti del padre che l’ha condannata ad una eterna sofferenza, è la miglior testimonianza della necessità di trovare la forza di andare avanti, riconoscendo nella vita ciò che di più prezioso abbiamo, e che per nessuna ragione al mondo vale la pena buttare via.
Lanciata ad aprile in tandem da Oscar Giannino (conduttore di Nove in punto) e Sebastiano Barisoni (conduttore di Focus Economia), è la risposta della radio al tragico dilagare di suicidi fra una popolazione martoriata nel corpo, nello spirito e nel portafoglio dalla congiuntura economica, aggravata peraltro dal comportamento irresponsabile dello Stato. Nella presentazione dei cinque brevi filmati, il direttore di Radio 24, Fabio Tamburini, ha ricordato brevemente la genesi dell’iniziativa: inizialmente vista come una grande opportunità di indagare il fenomeno, si scontra presto col timore di divenire anch’essa una cassa di risonanza, col rischio di amplificare il problema invece che arginarlo; d’altro canto, l’esigenza di superare l’indifferenza, il muro del silenzio e il pericolo dell’isolamento, unita alla volontà di raccontare i fatti e di dare conforto alla disperazione, ha definitivamente convinto il board della radio ad intraprendere questa delicata avventura. Ed è così che, racconta Tamburini, la redazione è stata “travolta” da lettere, e-mail, telefonate che traducono dolore, solitudine, vergogna, senso di inferiorità e di inadeguatezza, come se si trattasse di un fallimento personale e non dell’effetto di un sistema perverso. Di questo si tratta, invece: di un macrofenomeno sociale, largamente indipendente dalle volontà e dalle capacità dei singoli individui coinvolti. Le lettere, in gran parte “toccanti, commoventi e sconvolgenti”, hanno reso evidente la necessità di socializzare e combattere il problema, nel tentativo di spronare le persone all’orgoglio e alla voglia di lottare e rimettersi in gioco. L’intervento di Sebastiano Barisoni ha fornito un’ulteriore chiave di lettura del dramma: accanto alla solitudine e alla sconfitta, assume rilevanza centrale la perdita di dignità e di rispetto sociale conseguenti al fallimento, una sconfitta morale tale da rendere il suicidio una scelta largamente preferibile. Lo sguardo dei figli, intriso di commiserazione, contribuisce a vulnerare in modo spesso irreparabile la psicologia delle vittime della crisi. Più dell’effettivo danno economico, più dell’erosione del guadagno, più del “decremento della produttività marginale del capitale”, sono la vergogna e la perdita di autostima a spingere le persone a prospettare scenari terminali per la propria esistenza. La lezione che come italiani dovremmo apprendere, continua Barisoni, è che il fallimento imprenditoriale esiste ed è da considerare, ma non ha nulla a che spartire con un deragliamento personale: negli Stati Uniti quando un’attività fallisce si chiude e se ne riapre un’altra con disinvoltura; al contrario, in Italia il fallimento è un marchio sociale che ci si porta appresso per tutta la vita, cosicché chi è più sensibile alla vergogna finisce per preferire la strada dell’autolesionismo. Preoccupante è anche il “silenzio assordante” delle istituzioni, alle quali non si chiede certo un intervento diretto, una politica di sussidi, un fido o un finanziamento: si auspica semplicemente la volontà di ascoltare un Paese che soffre, e di cercare nei limiti del possibile di attenuarne il dolore. Al contrario, mentre la gente muore, anche letteralmente, la politica continua a sprecare, a vivere in un mondo tutto suo, a “magnare e scopare”: per questo, suggerisce Barisoni con un vivace consenso del pubblico, lo slogan dovrebbe essere Disperati mai, indignati sempre. L’accusa di populismo, sovente rivolta ad argomentazioni di questo genere, è in realtà lo strumento di autodifesa di una “casta che sta già pensando di fottervi!”. In realtà, di fronte ad un Paese che si impoverisce sempre di più mentre la classe politica continua senza remore il suo gioco perverso, il giudizio civico deve diventare necessariamente un giudizio politico, di aspra e sincera condanna. Disperazione, rabbia, indignazione dunque, ma anche speranza: la speranza di un mercato e di un’economia reale che non hanno creato la crisi, ma che l’hanno soltanto subita. Naturalmente, sulla causalità della crisi le posizioni sono varie e discordanti, ma è un fatto insindacabile che essa riguardi precipuamente il “mercato finanziario” e le sue dinamiche internazionali: la politica monetaria espansiva della Fed, un sistema bancario intimamente corrotto, una deregolamentazione finanziaria operata nel 1999 in nome del malinteso "liberismo" di Chicago, il permanere di “lacci e laccioli” pubblici che frenano il dispiegamento delle libere forze del mercato. A ciò si aggiunga, come sottolinea Barisoni, la specificità italiana: un sistema di piccole e medie imprese parcellizzate incapaci di rispondere con forza, almeno nell’immediato, agli scossoni congiunturali; un eccesso di irrigidimento del sistema fiscale nei confronti di quegli autonomi e piccoli imprenditori considerati dall’Agenzia delle Entrate ipso facto evasori fiscali, e pertanto nemici del consorzio sociale; l’indecenza di uno Stato pessimo pagatore di quei privati che vantano crediti nei suoi confronti, e che al contempo vengono vessati con scientifica puntualità dal braccio armato di Equitalia. Insomma, conclude Barisoni fornendo un’efficace sintesi della versione italiana della crisi economica: “Abbiamo sì un problema di finanza, ma anche di Guardia di Finanza”. Giungendo al termine della serata, è il momento di trarne la morale: essa consiste nella riscoperta dei valori della vita e della famiglia, ragioni di vivere ben più consistenti del denaro e della rilevanza sociale; ferma è anche la condanna di gesti estremi come il suicidio, condanna suggellata dalla testimonianza di una figlia orfana della crisi. Il suo dolore, l’odio nei confronti del padre che l’ha condannata ad una eterna sofferenza, è la miglior testimonianza della necessità di trovare la forza di andare avanti, riconoscendo nella vita ciò che di più prezioso abbiamo, e che per nessuna ragione al mondo vale la pena buttare via.
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