venerdì 5 ottobre 2012

F.A. Hayek: via della schiavitù e via della libertà


di Damiano Mondini


Credo che, dopo un po' di socialismo, la gente riconosca generalmente che è preferibile, per il proprio benessere e relativo status, dipendere dall'esito del gioco del mercato piuttosto che dalla volontà di un superiore al quale si sia assegnati d'autorità.
Friedrich von Hayek

Il socialismo: la via della schiavitù
Nel suo testo divulgativo più importante, The Road to Serfdom (1944), il filosofo ed economista austriaco Friedrich August von Hayek (1899-1992) analizza nel dettaglio il modo in cui il mondo contemporaneo si sta muovendo inesorabilmente verso quella che egli definisce la "via della schiavitù", di cui i totalitarismi, le guerre e le deportazioni di massa sono le manifestazioni più evidenti. La tesi sostenuta nel corso del testo è che la matrice comune dei regimi totalitari, che hanno condotto il mondo sul baratro del secondo conflitto mondiale, vada ricercata nel pensiero socialista. Il socialismo, infatti, se da un lato si ammanta di aneliti di giustizia, libertà e uguaglianza, dall'altro si rivela nel profondo intrinsecamente liberticida. Come Hayek sottolinea, esso nacque tirannico, e fu solo nel corso del XIX secolo che si contaminò di ideali democratici che tuttavia non ne snaturarono la recondita natura dittatoriale, che del resto le varie forme di "socialismo reale" non hanno mancato di far riaffiorare. Che il socialismo, l'ideale egualitario sorto formalmente a difesa dei diritti dei più deboli e per la risoluzione della "questione sociale", fosse fin dall'inizio di natura illiberale, può apparire una tesi forte: tuttavia, essa viene affermata con forza da Hayek.
Oggi di rado ci si rammenta che il socialismo, ai suoi inizi, fu chiaramente autoritario. Gli scrittori francesi che posero le basi del socialismo moderno non avevano alcun dubbio che le loro idee potevano venir messe in pratica soltanto da un forte governo dittatoriale. Per loro, il socialismo significava un tentativo di "portare a termine la rivoluzione" per mezzo di una intenzionale riorganizzazione della società progettata su basi gerarchiche e ad opera dell'imposizione di un "potere spirituale" coercitivo. Per quel che concerneva la libertà, i fondatori del socialismo non nascosero affatto le loro intenzioni. Essi vedevano nella libertà di pensiero il peccato originale della società del diciannovesimo secolo; e il primo dei moderni pianificatori, Saint- Simon, annunciava addirittura che quanti non avessero ubbidito ai comitati per la pianificazione da lui proposti sarebbero stati "trattati come bestiame".


Del resto uno dei più attenti critici del socialismo del XIX secolo, Alexis de Tocqueville, aveva già a quel tempo percepito l'incolmabile distanza fra la libertà autentica e gli ideali socialisti: questi ultimi, infatti, implicavano a suo avviso la realizzazione di una società
in cui lo Stato si incarica di tutto [e] in cui l’individuo è nulla, [una società] di api e di castori, non di uomini liberi e civili […]. La democrazia e il socialismo non sono solidali l’una con l’altro. Sono cose non solo differenti, ma contrarie. La democrazia estende la sfera dell’indipendenza individuale, il socialismo la restringe. La democrazia dà ad ogni uomo tutto il valore possibile, il socialismo fa di ogni uomo un agente, uno strumento, un numero. La democrazia e il socialismo non hanno in comune che una sola parola, l’uguaglianza: ma state attenti alla differenza: la democrazia vuole l’uguaglianza nella libertà e il socialismo vuole l’uguaglianza nella restrizione e nella schiavitù.
Tutti i successivi tentativi di pervenire ad un ibrido "socialismo democratico" furono destinati a fallire, e la spiegazione di ciò è fornita nel dettaglio da Hayek: l'abolizione della proprietà e dell'iniziativa privata, infatti, presuppone l'instaurazione di un'economia pianificata che coordini la "gestione sociale della produzione"; ciò a sua volta implica la costituzione di uno Stato centralista dotato di ampi poteri, come teorizzato dai maestri della "dottrina tedesca dello Stato", Fichte, Hegel e Lassalle, non a caso grandi ispiratori degli ideali socialisti (e nazionalsocialisti). In questo modo la concentrazione del potere politico, lungi dal garantire la "vera libertà dal bisogno" o "libertà sostanziale" vagheggiata dai socialisti, priva progressivamente i cittadini di qualsivoglia libertà: in nome di presunti loro "diritti sociali" li spoglia dei loro diritti individuali, sciogliendo la loro individualità nella collettività di cui lo Stato si erge a rappresentante autoritario. La conclusione di Hayek è tanto perentoria quanto ineludibile: il collettivismo conduce sempre, prima o poi, al totalitarismo. In fondo, i totalitarismi sorti negli anni '30 non furono la realizzazione degli originari ideali socialisti di accentramento del potere nelle mani dello Stato, di riorganizzazione della società, di supremazia dello Stato sulla volontà individuale? A parere di Hayek ciò che rende un sistema totalitario è l'estensione della sfera politica ad ogni ambito della vita degli individui, sia pubblica che privata: questo controllo si esercita mediante la regimentazione dell'iniziativa privata (o, nel caso più estremo, attraverso l'abolizione della proprietà privata in toto) attuata dal potere politico incarnato dal monopolio statale della forza. Non era forse accaduto questo nella Germania nazista, nell'Italia fascista e in Unione sovietica? Hayek spinge persino oltre la propria tesi, evidenziando come i movimenti socialisti che avevano preso piede in questi paesi avessero preparato essi stessi il terreno ai totalitarismi: in primo luogo, contribuendo a plasmare la forma mentis dei cittadini alla logica dell’organizzazione gerarchica; in secondo luogo, alimentando vane speranze egualitarie le quali, una volta dimostrata la propria incompatibilità con la democrazia, avevano aperto le porte alla forza esecutiva dei regimi totalitari, che appariva l’unica via possibile per realizzarli.

Il liberalismo: la via della libertà
Conclusa la pars destruens, consistita nella demolizione degli ideali socialisti e nella demistificazione dei loro presunti aneliti libertari, Hayek dedica la pars construens alla "via della Libertà", ossia alla definizione di una "società libera", o "Grande Società", fondata sulla libertà individuale e il rispetto della dignità del singolo. A suo giudizio, soltanto gli ideali liberali sono in grado di fornire una difesa dei diritti dei singoli individui contro le prevaricazioni della collettività e dello Stato. Il suo modello di società libera è dunque fondato sull'istituto della proprietà privata, intesa come la sfera intangibile, inerente ad ognuno, entro la quale nessuno può intervenire coercitivamente; essa garantisce la libertà individuale, intesa ex negativo come assenza di coercizione esterna, in modo da permettere un ampio esercizio della propria individualità in ogni ambito che non leda l'eguale diritto altrui a non essere oggetto di costrizione o aggressione. Il rispetto della proprietà privata, e dunque della libertà, si estrinseca nell'insieme di regole interpersonali atte a difendere le sfere individuali da indebite aggressioni, e in ciò consiste appunto la giustizia. La proprietà e la libertà si esercitano all'interno del libero mercato o, usando l'espressione di Hayek, nell' "ordine spontaneo di mercato o catallaxis", l'insieme dei contratti volontari; in un sistema catallattico, lo Stato non è che una ridotta cornice col compito di tutelare i diritti delle singole parti. L'uguaglianza autentica consiste nell'eguaglianza di tutti gli individui dinnanzi alla legge, non nell'eliminazione delle differenze sociali ed economiche. Alla prevedibile obiezione socialista, Hayek risponde in questi termini: innanzitutto, nonostante la pubblicità che il socialismo ha dato all'uguaglianza di opportunità e risorse, il sistema economico collettivista da esso propugnato non è stato neanche lontanamente in grado di porla in essere (questo perché, come la Scuola Austriaca ha efficacemente dimostrato, in un'economia socialista lo Stato, supremo ed unico organizzatore della produzione, non è in grado di provvedere ad una distribuzione razionale delle risorse su larga scala); in secondo luogo, immolare il bene più prezioso dell'uomo, la libertà, sull'altare di una uguaglianza raggiungibile soltanto (o forse nemmeno) con l'uso della violenza e del terrore, è un gioco che non vale la candela. In fondo, fra l'autentica Libertà dell'uomo e i suo presunti quanto irrealizzabili "diritti sociali" non è possibile alcun tipo di compromesso.
Il pensiero di Hayek ha il grande merito di indicarci quale strada dobbiamo assolutamente evitare – la via della schiavitù, del socialismo, del dominio dell’uomo sull’uomo – e quale invece è bene che ci affrettiamo a percorrere – la via della libertà, del liberalismo, del primato dell’individuo sulla società e sullo Stato. Dove arriveremo intraprendendo questo percorso? Hayek non ci fornisce tale risposta, poiché, come scrive nelle battute conclusive di Law, Legislation and Liberty (1982), “l’uomo non è padrone del proprio destino”. A suo avviso sarebbe stato sufficiente pervenire ad uno “Stato leggero” che limitasse di molto il suo intervento, e ciò sarebbe bastato per garantire la libertà. Per altri pensatori, al contrario, ad essa si potrà giungere solo abolendo in toto il potere e la coercizione, ossia eliminando lo Stato. Ma questa è un'altra storia.

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