di Damiano Mondini
Si dice spesso che i grandi maestri del passato continuano a dare lezioni al presente, oltre che ad insegnarci come immaginare il futuro. Sovente si tratta di esercizi retorici da ginnasio o da liceo, come quando si vagheggia dell’attualità dell’utopia platonica o della preveggenza di Karl Marx nei riguardi dell’inevitabile crollo del capitalismo. Ciò nondimeno, per alcuni pensatori questa massima risulta particolarmente calzante: Thomas Jefferson (1743-1826) è uno di questi; si potrebbe anzi azzardare che, per comprendere il panorama politico contemporaneo, e nella fattispecie quello italiano, il virginiano sia un convitato imprescindibile. E’ questa la tesi di Luigi Marco Bassani, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Milano e candidato consigliere regionale in Lombardia nelle liste di FARE, studioso che a questa figura originale ha dedicato un’ampia bibliografia: in particolare, sia consentito citare Contro lo Stato nazionale. Federalismo e democrazia in Thomas Jefferson (Fenicottero, 1995), Dalla Rivoluzione alla guerra civile. Federalismo e Stato moderno in America 1776-1865 (Rubbettino, 2009) e Liberty, State and Union. The Political Theory of Thomas Jefferson (Mercer University Press, 2012).
A certi professori paludati, i medesimi che ci hanno pervasi dell’assoluta centralità dei classici nel mondo di oggi, potrebbe sembrare strano richiamare l’autentica necessità – questa volta autentica davvero – di ricollocare Jefferson e i temi da lui trattati al centro del dibattito politico. Questa insofferenza intellettuale nei confronti di un pensatore tanto arguto non ha alcuna ragion d’essere, anzi è controproducente. Per quanto marginale sia il contributo che un osservatore politico può darci, è sempre meglio arricchirci abbeverandoci alla sua fonte piuttosto che ignorarlo, o tutt’al più classificarlo come secondario rispetto ai soliti “grandi” – immancabilmente Platone, Kant, Hegel e il già citato Marx. Il bello è tuttavia che il punto di vista jeffersoniano è particolarmente privilegiato: egli, molto più di tanti altri nomi più o meno noti – Madison, Washington, Hamilton o Adams – ha contribuito a forgiare e corroborare il più adamantino spirito americano. E ciò a dispetto del fatto che si sia sempre considerato soltanto un “virginiano”, un figlio dello Stato della Virginia piuttosto che un membro di un non meglio precisato “popolo degli Stati Uniti”.
Questo grande uomo ha infatti redatto la bozza della Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, nel cui noto incipit ha richiamato i diritti naturali degli individui (“vita, libertà e ricerca della felicità”), calco diretto e consapevole della triade del filosofo giusnaturalista John Locke (“vita, libertà e proprietà”). Si tratta di diritti intrinseci alla natura umana, che precedono l’instaurarsi di un ordine politico, e che anzi garantiscono la corrispondenza fra la volontà dei cittadini e l’operato dei governi. Questi ultimi, come afferma l’adagio più citato che compreso, sono formati per tutelare i diritti di chi affida loro la delega, e che pertanto – qualora essi vengano meno alle richieste o eccedano nella bramosia di potere – può liberamente ritirarla. La rilettura in chiave pattizia e sostanzialmente privatistica del contratto politico contribuisce a purgare gli orizzonti dalla mistificazione ideologica – di rousseauiana memoria – del “contratto sociale”, che fonda l’obbligo politico su una metafisica “volontà generale”, nei fatti incarnata dal volere del sovrano pro tempore. Questo smascheramento dei miti e delle ritualità del potere, in nuce nel pensiero dei Founding Fathers, troverà negli anni Sessanta del Novecento la più limpida formulazione nella scuola di Public Choice, lo studio economico delle dinamiche politiche legato primariamente al nome del premio Nobel James M. Buchanan.
Nel contesto del dibattito genetico americano, Jefferson difende – contro il progetto hamiltoniano di un big government – la sovranità dei singoli Stati rispetto alle prerogative del governo federale: quest’ultimo è il semplice delegato alla cura degli “affari generali ed esteri” dei primi; sono gli Stati ad aver fatto l’Unione, non il contrario – come invece affermerà la “bugia spettacolare” di Abraham Lincoln. Gli Stati che hanno dato vita alla federazione agiscono come legittimi difensori dei diritti naturali – ivi compresa la proprietà – dei propri popoli; al contrario, i centralizzatori ritengono detentore della sovranità un metastorico e metafisico “popolo americano”, il cui unico legittimo interlocutore sarebbe il governo di Washington. L’idea degli states’ righters, dei difensori dei diritti degli Stati contro la tendenza centralista del governo federale, esprime un concetto alieno ai paradigmi concettuali europei: legittimamente, noi si è portati a contrapporre i difensori degli individui e dei loro diritti ai paladini del potere. Ma nell’America fra la Rivoluzione (1776) e la guerra di secessione (1865) difendere i diritti dei singoli Stati significa proteggere i popoli dalle manie espansive del governo centrale. Jefferson fonda questa suo visione – che è insieme autenticamente federalista e liberale – sulla dottrina del diritto naturale, mentre altri intellettuali si richiameranno direttamente alla “sovranità” degli Stati. Al di là delle differenze dottrinali, l’obiettivo è il medesimo: tutelare gli individui dagli eccessi del potere – e in effetti, la “libertà federale” si rivela un potente freno alla crescita degli apparati governamentali ad ogni livello, dimostrando l’evidenza per cui uno Stato piccolo è tendenzialmente meno tirannico di uno grande. Ma la battaglia di Jefferson, come pure degli Antifederalisti prima di lui – coloro che, a dispetto del nome, avversavano i centralizzatori e propendevano per un sistema il più decentrato possibile – è anche in difesa di un mercato libero contro il minacciato interventismo di Washington: ciò a dimostrare ulteriormente, qualora ve ne fosse bisogno, che la libera economia trova sempre e comunque un avversario temibile nello Stato, specie se quest’ultimo gode di notevoli margini di autonomia decisionale.
Insomma, il pensiero di Jefferson è una sintesi – tutto sommato riuscita – fra le istanze di libertà individuale, di libero mercato e di minimizzazione del carattere coercitivo del potere. Per questo il suo messaggio è, mai come oggi in Italia, di estrema importanza: in un contesto in cui la crescita economica, la nostra libertà come individui e la nostra stessa dignità di persone è costantemente minacciata da uno Stato “ladro e canaglia” – tanto a Roma quanto a Bruxelles -, pensare che esistano altre vie da percorrere, e che quest’ultime siano in ultima istanza più giuste, è il primo passo per cambiare davvero qualcosa.
Questo grande uomo ha infatti redatto la bozza della Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, nel cui noto incipit ha richiamato i diritti naturali degli individui (“vita, libertà e ricerca della felicità”), calco diretto e consapevole della triade del filosofo giusnaturalista John Locke (“vita, libertà e proprietà”). Si tratta di diritti intrinseci alla natura umana, che precedono l’instaurarsi di un ordine politico, e che anzi garantiscono la corrispondenza fra la volontà dei cittadini e l’operato dei governi. Questi ultimi, come afferma l’adagio più citato che compreso, sono formati per tutelare i diritti di chi affida loro la delega, e che pertanto – qualora essi vengano meno alle richieste o eccedano nella bramosia di potere – può liberamente ritirarla. La rilettura in chiave pattizia e sostanzialmente privatistica del contratto politico contribuisce a purgare gli orizzonti dalla mistificazione ideologica – di rousseauiana memoria – del “contratto sociale”, che fonda l’obbligo politico su una metafisica “volontà generale”, nei fatti incarnata dal volere del sovrano pro tempore. Questo smascheramento dei miti e delle ritualità del potere, in nuce nel pensiero dei Founding Fathers, troverà negli anni Sessanta del Novecento la più limpida formulazione nella scuola di Public Choice, lo studio economico delle dinamiche politiche legato primariamente al nome del premio Nobel James M. Buchanan.
Nel contesto del dibattito genetico americano, Jefferson difende – contro il progetto hamiltoniano di un big government – la sovranità dei singoli Stati rispetto alle prerogative del governo federale: quest’ultimo è il semplice delegato alla cura degli “affari generali ed esteri” dei primi; sono gli Stati ad aver fatto l’Unione, non il contrario – come invece affermerà la “bugia spettacolare” di Abraham Lincoln. Gli Stati che hanno dato vita alla federazione agiscono come legittimi difensori dei diritti naturali – ivi compresa la proprietà – dei propri popoli; al contrario, i centralizzatori ritengono detentore della sovranità un metastorico e metafisico “popolo americano”, il cui unico legittimo interlocutore sarebbe il governo di Washington. L’idea degli states’ righters, dei difensori dei diritti degli Stati contro la tendenza centralista del governo federale, esprime un concetto alieno ai paradigmi concettuali europei: legittimamente, noi si è portati a contrapporre i difensori degli individui e dei loro diritti ai paladini del potere. Ma nell’America fra la Rivoluzione (1776) e la guerra di secessione (1865) difendere i diritti dei singoli Stati significa proteggere i popoli dalle manie espansive del governo centrale. Jefferson fonda questa suo visione – che è insieme autenticamente federalista e liberale – sulla dottrina del diritto naturale, mentre altri intellettuali si richiameranno direttamente alla “sovranità” degli Stati. Al di là delle differenze dottrinali, l’obiettivo è il medesimo: tutelare gli individui dagli eccessi del potere – e in effetti, la “libertà federale” si rivela un potente freno alla crescita degli apparati governamentali ad ogni livello, dimostrando l’evidenza per cui uno Stato piccolo è tendenzialmente meno tirannico di uno grande. Ma la battaglia di Jefferson, come pure degli Antifederalisti prima di lui – coloro che, a dispetto del nome, avversavano i centralizzatori e propendevano per un sistema il più decentrato possibile – è anche in difesa di un mercato libero contro il minacciato interventismo di Washington: ciò a dimostrare ulteriormente, qualora ve ne fosse bisogno, che la libera economia trova sempre e comunque un avversario temibile nello Stato, specie se quest’ultimo gode di notevoli margini di autonomia decisionale.
Insomma, il pensiero di Jefferson è una sintesi – tutto sommato riuscita – fra le istanze di libertà individuale, di libero mercato e di minimizzazione del carattere coercitivo del potere. Per questo il suo messaggio è, mai come oggi in Italia, di estrema importanza: in un contesto in cui la crescita economica, la nostra libertà come individui e la nostra stessa dignità di persone è costantemente minacciata da uno Stato “ladro e canaglia” – tanto a Roma quanto a Bruxelles -, pensare che esistano altre vie da percorrere, e che quest’ultime siano in ultima istanza più giuste, è il primo passo per cambiare davvero qualcosa.
Bravissimo
RispondiEliminaGrazie mille! =)
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Ottime riflessioni
RispondiEliminaRingrazio tutti - benché anonimi - di cuore! ;-)
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