di Damiano Mondini
Dalle 2 di notte, ora italiana, del 7 novembre è parso chiaro a chiunque avesse gli occhi per vedere: la presidenza del democratico Barack Obama sarebbe durata altri quattro anni – four more years, come recita lo slogan spopolato sui social networks. La vittoria sul candidato repubblicano Mitt Romney si è rivelata schiacciante contro ogni previsione, e non v’è motivo di credere che la maggioranza dell’Elefantino alla Camera potrà seriamente cambiare le carte in tavola. Gli Stati Uniti d’America hanno voluto dare un messaggio chiaro, apparentemente difficile da fraintendere, ma che darà senz’altro adito a differenti interpretazioni. Al netto degli entusiasmi infantili sollevati dal risultato nei media italiani, il voto deve essere letto più come una sconfitta dell’accoppiata repubblicana Romney-Ryan che non come una vittoria del duo democratico Obama-Biden.
Non è francamente credibile che il desiderio di continuità si sia rivelato sufficiente per una rielezione del candidato uscente. Al contrario, pochi elementi hanno realmente giocato a favore di Obama durante la campagna elettorale, ed al contempo molti sarebbero stati i punti dolenti della sua presidenza su cui avrebbe facilmente potuto fare leva l’opposizione repubblicana: il permanere della crisi economica e della disoccupazione – poco importa se la responsabilità fosse realmente del Presidente, e fino a che punto ne fosse complice l’Amministrazione Bush, poiché la verità passa notoriamente in secondo piano quando si fa propaganda; il clamoroso fallimento del tentativo di arginare gli effetti perversi della finanza col Dodd Frank Act – ed anche qui, si sarebbe potuto glissare senza timore sull’ostruzionismo repubblicano e sull’efficacia delle soluzione alternative avanzate dalla destra; l’aumento esponenziale del debito pubblico, diretta conseguenza dei salvataggi delle banche d’affari colpite dalla crisi e delle manovre stataliste dell’Amministrazione; i risultati in chiaro-scuro della politica internazionale, che pure ha avuto un ruolo marginale nel dibattito pre-elettorale; i blandi risultati del fiore all’occhiello della presidenza Obama, la riforma sanitaria, che a fronte dei costi elevati ed attesi non è stata in grado di condurre ad alcun concreto risultato apprezzabile. Insomma, le carte da giocare contro Obama non sarebbero mancate: un Presidente la cui elezione nel 2008 aveva suscitato i più sentiti entusiasmi aveva tenuto una linea mite ed inconcludente, consegnando sostanzialmente il testimone della vittoria a qualsivoglia contendente avesse proposto il Partito Repubblicano. Difficilmente, con tali premesse, il democratico Sole del forward – tanto simile al socialista Sole dell’Avvenire – avrebbe potuto tornare a splendere. Eppure, Mitt Romney ed il candidato alla vice-presidenza Paul Ryan hanno avuto la forza di raggiungere questo obiettivo: perdere fragorosamente le presidenziali. Come spiegare una simile défaite? Semplicemente, l’Elefantino non è riuscito a mettere in campo una reale alternativa all’Asinello. La figura di Romney non è stata in grado di catalizzare il sostegno repubblicano e l’opposizione ad Obama: moderato, privo di spessore, eccessivamente compromesso con il potere costituito, nonché uno fra i più statalisti dei candidati alle primarie – secondo forse solo a Rick Santorum. Del tutto incapace di rispondere a tono alle linee programmatiche dei democratici, perché in tutta franchezza ne condivideva gli intenti di fondo. Le speranze per i repubblicani erano parse riaccendersi con la nomina di Ryan a candidato vice-presidente: una scelta – si disse -, che avrebbe galvanizzato la base del Tea Party e fatto svoltare potentemente a destra la campagna repubblicana; l'intento era di rendere limpido e cristallino l’individualismo liberale della politica economica, indirizzando quest'ultima verso un genuino entrepreneurial capitalism ed un marcato laissez-faire. In realtà, fatto salvo il piglio decisorio del giovane Ryan – dato peraltro per disperso nei giorni precedenti il voto -, è noto come la sua linea fosse caratterizzata dal moderatismo nella riduzione del debito, da velleità compromissorie col crony capitalism e da una forte ideologia neo-conservative e guerrafondaia; si veda a tal proposito il focus di Luca Fusari pubblicato pochi giorni fa su questo blog. Si potrebbe sintetizzare così il confronto per nulla al vetriolo fra i due candidati: non una battaglia campale fra Stato e individuo, fra potere e mercato, fra statalismo e individualismo; semmai, un litigio fra amanti, un tenue dibattito tra i fautori di un interventismo sociale ed uno militare, fra il welfare-keynesism dei democratici e il warfare-keynesism dei repubblicani. Ha prevalso il buonismo sociale sul muscolarismo militare, e di certo non siamo di fronte ad una memorabile vittoria di principî; pur tuttavia, non avremmo avuto nulla di cui rallegrarci in caso di vittoria repubblicana. Al di là degli slogan elettorali, gli States non sarebbero tornati al gold standard – idea balzana di Romney subito abortita - , le spese non sarebbero crollate, il disavanzo federale non si sarebbe avviato ad una rapida estinzione. Tutt’al più, com’era chiaro finanche ai media nostri compatrioti, si sarebbe aumentata la spesa militare – idea caldeggiata con più forza da Ryan che dallo stesso Romney -, senza peraltro avere la certezza di ridimensionare la spesa sociale privatizzando Medicare. Oltre le fanfare della vittoria e il lirismo sul trionfo dell’american way of life e della libertà, tutto sarebbe cambiato in maniera da restare come prima, in un’evoluzione politica gattopardesca molto simile a quella italiana. Certamente non siamo entusiasti per questo risultato, e non possiamo che concordare con Romney quando prevede che “le politiche del Presidente Obama condurranno l’America ad una situazione di difficoltà come quella che in Europa vediamo in Paesi come l’Italia”; nondimeno, abbiamo forti ragioni di credere che con la presidenza neo-con dei repubblicani la situazione non sarebbe migliorata di molto. Come libertari abbiamo perso – e in ciò ci confortano Ron Paul e Gary Johnson -, ma nel duopolio partitico statunitense saremmo stati sconfitti in ogni caso: si tratta perciò di una mezza sconfitta, che in fondo ci sconforta relativamente.
Nessun commento:
Posta un commento