
Il brano in sé ha mille difetti, ma il problema è un altro: l'autorità, ancora una volta, si impone sulla mente dei più giovani colpendoli con l'arma più forte, che non è la cinematografia, come diceva il duce, ma l'istruzione pubblica. Niente di nuovo, d'accordo, ma certi decreti sembrano fotocopie delle ordinanze del MinCulPop: non è mai piacevole sentirseli piombare in testa. Ad ogni modo, non lasciamoci prendere dallo sconforto: esistono almeno tre buone ragioni per non disperare.
Uno: gli italiani sono sempre rimasti gli stessi: un non-popolo di individualisti sordi alle ingiunzioni del potere, che flirtano magari con l'autorità, ma solo per ricercare un guadagno personale a spese dei concittadini. Ai romanticismi sono allergici, o quasi. Un esempio? Quelli che Miglio chiamava parassiti sono patrioti perché l'Italia garantisce loro il sussidio, non perché «dell'elmo di Scipio s'è cinta la testa».
Due: la scuola ha il potere mirabile di tradurre in noia le più alte manifestazioni della cultura occidentale. Se sui banchi gente come Catullo, Cicerone e Seneca risulta insopportabile alla gran parte degli studenti, c'è da sperare che un Mameli qualsiasi non faccia una fine migliore.
Tre: l'orgia di «disfattismo» nazionale che contraddistinse la prima repubblica fu una risposta al ventennio littorio, quello degli immancabili destini e dell'Impero che tornava sui colli fatali. A metà anni Novanta, il trionfo della Lega e il vasto consenso alla secessione hanno trasformato la classe politica in una divisione di Balilla. Anche l'opinione pubblica antileghista mutò in quella stessa direzione. Perfino i comunisti, nemici per mezzo secolo del tricolore, cominciarono a sventolarlo con entusiasmo. Le prossime generazioni saranno secessioniste per lo stesso motivo? Incrociamo le dita.
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