Articolo originariamente pubblicato su The Fieldler
La questione dell’uscita d’un Paese membro dall’euro è un tema ricorrente nel dibattito politico degli ultimi anni. In Italia, trova il consenso di chi vorrebbe ridare competitività al Paese attraverso una svalutazione competitiva, evitando cosí d’operare quelle riforme strutturali che spesso hanno implicazioni sociali. Si tratta d’una tesi che ha fatto largamente breccia nell’accademia italiana, supportata da professori come Alberto Bagnai e Claudio Borghi, e che raccoglie oggi consensi in una parte dell’elettorato non solo di sinistra.
Chi si riconosce nel libero mercato fino a oggi s’è trovato costretto a una difesa d’ufficio dell’euro, in chiave di contrapposizione alle posizioni dei keynesiani e dei sostenitori della Modern Monetary Theory. Le argomentazioni portate contro sono le piú varie, dal fatto che la svalutazione competitiva avrebbe effetti inflazionistici
per un Paese importatore di materie prime come l’Italia alla
constatazione che l’uscita dall’euro darebbe le chiavi della moneta alla
politica italiana, che le userebbe per emettere moneta per
pagare le spese correnti dello Stato anziché risanare il bilancio e
tagliare gli sprechi del settore pubblico.
È, però, una posizione di difesa di retroguardia, che mette da parte le critiche che economisti di libero mercato quali Milton Friedman e Friedrich Hayek avevano preventivamente mosso al progetto della moneta unica europea,
che ritenevano un progetto tutto politico-costruttivista con deboli
fondamenta economiche. Peraltro, delle debolezze (da un punto di vista
del libero mercato) dell’euro e piú in generale dell’Unione Europea ho
già parlato in quest’articolo, cui vi rimando.
Il vero punto ignorato dai piú impegnati nel concettualizzare è che la realtà,
con la sua complessità – che l’analisi economica cerca, con le sue
umane imperfezioni, di comprendere –, alla fine prevale sempre sulla volontà della politica.
Se l’euro è costruito su fondamenta d’argilla – e secondo gli autori lo
è –, è solo questione di tempo prima che i fondamentali economici
producano situazioni sui mercati e di retroazione negativa nell’àmbito
politico che porteranno alla disgregazione della costruzione europea e
dell’euro quale suo principale strumento. Fare difesa di retroguardia –
come fa oggi gran parte del mondo liberale – è, in uno scenario di
questo tipo, la peggiore delle strategie possibili. Si viene risucchiati
nell’affondamento di qualcosa che le migliori menti liberali avevano
già condannato senz’appello prima che fosse implementato. La politica
delle svalutazioni competitive con una «neoliretta» diventerà quindi una
profezia che s’auto-avvera.
È dunque opportuno che si definisca una strategia d’uscita da questa
configurazione politica e monetaria da un punto di vista di mercato e
che si rimuova definitivamente il feticcio che l’euro rappresenta. Sul
piano politico, questa discussione è ormai stata sdoganata in diversi
Paesi da forze pro mercato che ormai fanno i numeri e quindi non piú
confinate a ruoli residuali, dallo UK Indipendence Party nel Regno Unito
all’Alternative für Deutschland in Germania, dal Team Stronach in Austria all’Občanská demokratická strana
in Repubblica Ceca. Il consenso a forze che riconoscono il fallimento
del progetto europeista è in rapida crescita in tutta Europa non solo
verso quelle pro mercato ma anche verso altre portatrici di contenuti
statalisti e nazionalisti. Ma coloro che le identificano come la causa
della probabile fine dell’UE confondono la causa con l’effetto: l’UE sta
morendo di morte propria, e i partiti euro-critici saranno solo i
liquidatori. Ed è quindi con quest’approccio che scriviamo
quest’articolo: quello di liquidare un ordine politico e monetario
fallito nei fatti, cercando d’offrire – per quello monetario – una
visione e una prospettiva per forze che governeranno la transizione a un
diverso equilibrio.
Se le forze centrifughe prevarranno in Europa, come effetto della
retroazione negativa sul piano politico delle disfunzionalità della zona euro,
la soluzione migliore è che le stesse abbiano pronto un approccio per
smantellare in modo ordinato l’UE, conservando ciò che per decenni ha
funzionato perfettamente e ha creato vantaggi per tutti – cioè il mercato unico europeo – e lasciando invece al suo destino tutta la sovrastruttura burocratica
creata negli ultimi vent’anni. In uno scenario di questo tipo, l’intero
frame work legale che sostiene l’euro sarebbe messo in discussione.
È fondamentale iniziare oggi a discutere seriamente di come gestire
questa transizione e di quale tipo d’assetto monetario ci sarà dopo la
conclusione dell’esperimento euro. La base di partenza su come farlo (su «dove vogliamo andare come prospettive» ragioneremo verso la fine dell’articolo) è un articolo apparso il 4 luglio 2013 sul Wall Street Journal a firma Ross H. McLeod, Adjunct Associate Professor alla Crawford School of Public Policy dell’Australian National University, tradotto in italiano per The Fielder qui.
McLeod spiega come sia possibile realizzare l’introduzione graduale d’una moneta nazionale fiat in cambio variabile coll’euro in modo graduale senza creare momenti di singolarità sistemica che spaventano sia i policy maker
sia i mercati. Il tutto attraverso meccanismi dilatati nel tempo e di
mercato, evitando la conversione forzosa dei risparmi. Per i privati, la
scelta d’usare la nuova moneta sarebbe del tutto consensuale. (Leggere
quell’articolo è fondamentale per il proseguimento del ragionamento.)
In sintesi, s’apre la prospettiva d’un sistema in cui le due monete
avrebbero corso parallelo, con lo Stato che da un certo momento in poi
usa solo la neomoneta per qualsiasi uso che lo riguarda (nuovi contratti
con fornitori, nuove emissioni di debito, stipendi, pensioni),
conservando i pagamenti in euro per il debito preesistente e per tutti i
contratti firmati antecedentemente. Le tasse si pagherebbero in euro
per la quota di reddito in euro e in neovaluta per la quota a essa
relativa. Tutti i depositi in euro sarebbero rigorosamente preservati;
tutta la ricchezza reale preesistente, sia dei privati sia dei
dipendenti del settore pubblico, sarebbe preservata. Non ci sarebbe
alcun’operazione nottetempo dal sapore fraudolento di conversione dei
soldi dei cittadini depositati sui conti correnti delle banche. Non ci
sarebbe alcuna conversione forzosa dei titoli di Stato esistenti nelle
mani dei cittadini e delle banche; nessun default mascherato dello Stato italiano. Nessun effetto, quindi, sul sistema Target2 della BCE.
Per inquadrare questa situazione, fino a oggi atipica, dobbiamo
immaginarci come se nello stesso spazio fisico esistessero due spazi
economici sovraintesi da monete diverse. Quando il nuovo sistema andrà a
regime, sarà come se ci fosse un commercio «internazionale» tra
segmenti diversi della società; nulla, quindi, che dal punto di vista
teorico non sia già stato analizzato. Come si comporterà il cambio di
due valute? Dipenderà dalla bilancia commerciale tra le economie
sovraintese dalle rispettive monete e dai flussi di capitale tra le due
«aree». La bilancia commerciale dipende dagli scambi d’utilità tra gli
agenti economici che stanno nei singoli «Paesi». Il cambio troverebbe un
punto d’equilibrio, quindi, tra l’utilità fornita dal settore pubblico a
quello privato e viceversa, con la postilla che comunque il settore
pubblico ha il beneficio che i suoi servizi sono in gran parte
coattivamente imposti: nessuno può fare optout dalla tassazione
rinunciando alla sanità pubblica, né può fare optout dai contributi INPS
per farsi solo una pensione privata. In sintesi, il sistema pubblico si
troverebbe comunque – come oggi – in una situazione migliore
dell’Arabia Saudita per quanto riguarda il petrolio, grazie al monopolio
legale sull’offerta dei suoi servizi.
Il cambio che possiamo aspettarci, dunque, dipende da quale teoria economica usiamo per cercare di prevederlo.
Se il lettore è un entusiasta della MMT o d’alcune frange
neokeynesiane secondo cui solo il settore pubblico produce valore (o
comunque la maggior parte del valore è prodotta da questo), allora dovrà aspettarsi che la neomoneta si rivaluti
in misura rilevante, aumentando il potere d’acquisto dei dipendenti
pubblici, delle pensioni, ma anche della politica piú in generale. In
tal caso, per evitare una rivalutazione troppo forte, lo Stato potrà
emettere nuova moneta ed espandere ulteriormente la spesa pubblica,
rilanciando l’economia secondo i dettami del classico interventismo
statale.
Personalmente, ritengo piú valida la teoria austriaca, secondo cui lo
Stato complessivamente non produce valore, bensí lo consuma, e da qui
ragiono in questi termini. La «neolira», secondo quest’approccio, si deprezzerà
anche in termini rilevanti. Esiste, però, una rigidità al
deprezzamento, proprio per via della natura coattiva dell’offerta di
servizi e quindi della tassazione che crea una domanda costante di
neovaluta.
La diminuzione del salario reale del dipendente pubblico aprirebbe la
possibilità di negoziare aumenti di stipendio in funzione dei
cambiamenti che si producono nell’organizzazione e introducendo logiche
che premiano la capacità e chi si dà davvero da fare. Lo Stato, per la
prima volta, avrebbe un incentivo reale a produrre utilità per i
cittadini. Trasformando incidentalmente i tax-consumer nei
migliori guardiani della stabilità monetaria. Di fatto si taglierebbero i
costi reali della politica, dei politici, degli stipendi dei burocrati
strapagati dello Stato. Permetterebbe, in sintesi, di spostare parte
della spesa pubblica dal parassitismo verso dinamiche incentivanti,
lasciando comunque margini per un avanzo di bilancio con cui riportare
il debito a livelli compatibili con la crescita economica, riducendo
l’effetto di spiazzamento del debito pubblico.
Questo perché riducendosi la spesa pubblica «reale» contro euro
s’otterrebbe un extragettito dal settore privato in neovaluta a parità
di tassazione, poiché la percentuale di tasse sugli euro guadagnati
verrebbe, prima d’esser incassata dallo Stato, riconvertita nella
neomoneta al netto del necessario per pagare gl’interessi sul debito
esistente in euro.
S’userebbe, in sintesi, la politica monetaria per aggirare sentenze e legalities
che oggi impediscono di riorganizzare lo Stato e di tagliare stipendi
dirigenziali indegni nel settore della pubblica amministrazione, gli
sprechi della politica, lasciandoli svalutare mentre ci sarebbero i
margini per sostenere gli stipendi dei pochi che in questi anni nel
settore pubblico hanno tirato il carro anche per tutti gli altri.
Questo potente stimolo al cambiamento arriverebbe proprio da coloro che
oggi sono incentivati all’immobilismo.
Quali gli effetti sul settore privato dell’introduzione di
questo nuovo regime? Il fatto che per le aziende l’uso della moneta sia
del tutto consensuale significa che qualunque rischio di cambio nel
passaggio a tale valuta sarà preso liberamente. Passeranno alla nuova
valuta? Come spiegava McLeod nel suo articolo, è solo una questione di
quale tasso di cambio la domanda e l’offerta determineranno e di quale
situazione di mercato vive l’azienda, secondo se sia importatrice,
esportatrice o legata al mercato nazionale.
Avremmo quindi un mercato unico con N valute liberamente
utilizzabili, tra cui anche l’euro, creando un ulteriore grado di
libertà per gli utilizzatori della moneta. L’euro agirebbe inizialmente
da simil-gold standard e, in effetti, questa sua caratteristica
disincentiverebbe in concorrenza e cambi variabili la tendenza
inflazionistica delle neonate valute nazionali. Questo perché in regime
di cambi variabili la legge di Gresham funziona al contrario, e spinge
gli utilizzatori di moneta a cercare quella con le caratteristiche
migliori. Contemporaneamente, le neovalute permetteranno tassi
d’interesse collegati ai fondamentali della sub-area di ciascuna
neomoneta, risolvendo il problema della rigidità creato da economie i
cui fondamentali divergono in maniera accelerata.
Ma non solo: lo schema si può espandere fin da súbito e a livello
paneuropeo, rendendolo ancor piú solido. Nel momento in cui esistono N
valute emesse da emittenti pubblici, non si capisce perché in tale
schema non si debba far partecipare privati con adeguata
capitalizzazione o a sistemi decentrati come, ad esempio, il Bitcoin o
Ripple. Si parla tanto di sovranità monetaria, ma la vera
«sovranità» dev’essere quella dei consumatori di poter scegliere
liberamente la soluzione monetaria che ritengono piú comoda e
vantaggiosa. Chiamiamola, quindi, libertà monetaria. Quel che serve all’Europa e agli europei è piú libertà
– e la libertà monetaria dev’essere tra queste. Liberi d’usare la
neovaluta dello Stato italiano, il vecchio euro, una moneta sociale
d’una banca etica, il Bitcoin o un qualsiasi fornitore che metterà oro a
garanzia della sua emissione, ciascuna gestita nei modi che l’emittente
deciderà e su cui lo stesso dovrà ottenere la fiducia degli
utilizzatori della valuta. O un qualsiasi mix di queste nel suo
portafoglio. Si tratta di creare un «ecosistema» monetario dinamico, in
cui sia la libera scelta dei consumatori di moneta a selezionare chi
saprà offrire la moneta migliore. Un sistema di freebanking.
* Le opinioni espresse da Andrea Benetton in questo articolo sono
da intendersi a titolo personale, strettamente divulgativo, in
relazione all’abituale collaborazione con il webmagazine The Fielder.
Non rappresentano la posizione ufficiale dell’associazione Libera
Europa, della quale è presidente ad interim.
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