lunedì 11 febbraio 2013

Giovannino Guareschi: un uomo libero

di Paolo Amighetti
Tutti hanno visto almeno una volta i film di don Camillo e Peppone. Pochi, oggi, leggono i libri che li hanno ispirati. Fernandel, interprete del grosso prete della Bassa, è più famoso di Guareschi, che di quel prete è padre e alter ego. Peccato, perché dimenticare Guareschi significa non soltanto ignorare un grande scrittore, che pur avendo «un vocabolario di cinquecento parole», come ricordava l'amico Montanelli, ha conquistato i lettori di tutto il mondo: significa abbandonare un uomo vero, geloso della sua indipendenza e fedele a ciò in cui credeva. Storia bizzarra, quella di Guareschi: finito in un lager durante la guerra, tornò in Italia per ricevere dai compagni la patente di fascista; dalle colonne del suo settimanale Candido diede un grosso contributo alla causa della Democrazia cristiana, incidendo sui risultati del 18 aprile 1948, per poi infangarsi nell'affare delle compromettenti lettere vaticane, secondo lui firmate De Gasperi, e finire in galera. Ci finì perché era troppo orgoglioso, troppo cocciuto: non chiese la grazia, che pure era a portata di mano, e pagò per intero lo scotto del suo errore. Quando morì, nel 1968, il suo mondo si stava spegnendo con lui. Cedeva sotto il peso della contestazione: chissà come gli sarebbero rimaste sullo stomaco le «okkupazioni» e i movimenti studenteschi, lui che già ad inizio anni Sessanta scriveva che «l'attuale generazione d'italiani è quella dei dritti, degli obiettori di coscienza, degli antinazionalisti, dei negristi [...] Pertanto, più che una generazione, è una degenerazione. [...] Questa è l'Italia che cerca di combinare un orrendo pastrocchio di diavolo e d'Acquasanta, mentre una folta schiera di giovani preti di sinistra (che non assomigliano certo a don Camillo) si preparano a benedire, nel nome di Cristo, le rosse bandiere dell'Anticristo.» Il «reazionario» Guareschi inventò don Camillo, ma gli affiancò un sindaco comunista che più comunista non si può, Peppone: l'uno e l'altro non sono che le due facce del sanguigno scrittore, capace di dare vita (e rendere verosimili!) un prete che discute animatamente con Cristo e un caposezione comunista che davanti al crocifisso s'inchina togliendosi il cappello.
Nel dibattito politico non risparmiò nessuno: fustigò i comunisti bersagliandoli con vignette e caricature, ma denunciò pure il marcio che fioriva in seno alla Dc, dalla quale si allontanò nei primi anni Cinquanta per avvicinarsi ai partiti monarchici. Difatti non si riconosceva nella Repubblica, che gli piaceva poco. Non credeva alla Costituzione, né alla rivoluzione, né al moderatismo democristiano. Non credeva nello Stato: si permetteva di diffidarne. Come scriveva nel Corrierino delle famiglie, descrivendo il primo giorno di scuola della figlia Carlotta, chiamata affettuosamente Pasionaria:
«Dunque addio anche a te, Pasionaria: tu esci dalla mia vita ed entri nella vita dello Stato. Ti insegneranno l'ipocrisia statale e anche i tuoi pensieri non saranno più tuoi e vedrai le cose con gli occhi del Ministero. [...] Anche questa volta, come per Albertino, io dovrò accettare il sopruso, dovrò aggiogare anche te, con le mie mani, al barbaro, orrendo, smisurato carro dello Stato. [...] Io adesso abbandonerò la tua mano tiepida e ti sacrificherò al dio crudele creato da chi non crede in Dio perché, se vi credesse, potrebbe vivere felice all'ombra delle sue Eterne Leggi. [...] Lo Stato fa le strade e fa camminare le ferrovie e illumina la città, di notte, ma ci toglie la libertà, e regola i nostri atti e anche i nostri pensieri, e sempre di più ci avvince nella matassa ormai inestricabile delle sue leggi e dei suoi regolamenti, e sempre più ci trasforma in trascurabili ingranaggi di una orrenda macchina che consuma sangue e serve solo a macinare aria.» Roba troppo amara per i palati sensibili di chi non vede oltre l'orizzonte dello Stato. Roba che non si trova sui libri di letteratura italiana. Sarebbe strano il contrario.

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